Alessandro Profumo, Amministratore Delegato di Leonardo

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Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore

Sono nato a Genova nel ’57, quinto di cinque figli. Mio padre era un ingegnere elettrotecnico, quando ancora non esisteva l’elettronica moderna, e mia madre un’insegnante di matematica che aveva deciso di lasciare l’insegnamento per stare con i figli.
Sono nato sotto “la lanterna” malgrado la mia famiglia vivesse a Palermo, dove mio padre si era trasferito per lavoro. Genova era la città dei miei genitori e là c’era, e c’è, il Gaslini, dove già allora si curava il problema legato al gruppo sanguigno Rh+. Sono cresciuto a Palermo fino a 13 anni poi, sempre seguendo il lavoro di mio padre, ci siamo spostati a Milano.
Papà/babbo era andato a Palermo a metà degli anni Cinquanta per creare, finanziato da una società milanese, una delle prime società elettroniche.

Si chiama- va la EL.SI. – Elettronica Sicula – che fu poi ceduta a Raytheon che la vendette a sua volta alla fine degli anni Sessanta. Venne chiesto a mio padre di andare negli Stati Uniti ma non volendo farci crescere in un altro paese, cercò un altro lavoro trovandolo a Milano.

Per quegli strani incroci del destino, i passaggi proprietari della Raytheon fanno sì che lo stabilimento di Palermo faccia oggi parte degli insediamenti produttivi di Leonardo, di cui sono ora Amministratore Delegato. Questo mi ha molto emozionato quando l’ho scoperto riportandomi indietro nel tempo e a quei primi tredici felici anni in Sicilia. Se penso alla mia infanzia penso agli spazi aperti, grandi e al sole. Al ritorno da scuola ci trovavamo, con gli amici, in un campetto di calcio in mezzo ai condomini dove vivevamo e, dal mese di maggio, iniziavamo ad andare al mare a Mondello. In inverno, la domenica, mia madre organizzava un pullman che ci portava a sciare a Piano Battaglia sulle Madonie. Ricordo che ero sempre il più piccolo in mezzo ad un gruppo di ragazzi palermitani che ho poi incontrato più avanti, nella vita professionale, nelle posizioni più diverse.

Il trasferimento al nord

Arrivato a Milano, in terza media, tutto è cambiato. Freddo e nebbia mi hanno molto colpito. Ma mi ha colpito molto anche una professoressa di italiano e latino che, avendo fatto la versione migliore della classe, ha stigmatizzato i suoi studenti dalla prima dicendo “vi fate bagnare il naso da un terrone”. Fu un brusco modo, non semplice, per iniziare ad uscire dall’infanzia e a capire che esistevano diversi modi di vivere, di pensare e di vedere le cose e che pregiudizi e certezze indiscutibili erano delle sciocchezze. Fu anche l’età di grandi amicizie. In terza media mi sono trovato nel banco con Francesco Caio. Abbiamo continuato a stare in banco insieme al ginnasio e, cambiando insieme sezione, al liceo. La nostra amicizia, iniziata sui banchi di scuola, continua da allora. Anche se non sono mai stato “rimandato a settembre”, e la selezione era molto forte, non posso dire di essere stato un grande studente. Penso di aver passato più tempo sul campo da pallacanestro che in classe e la sera e il weekend ero spesso impegnato per le attività scout. Comunque il liceo classico mi ha insegnato a ragionare o come si chiamava allora “il metodo”, e continuo a pensare sia un’ottima scuola. Quando avevo un week end libero correvo in campagna nella casa di mia nonna o in quella della mia tata, e il lunedì, al rientro a Milano, il commento più diffuso era che si sentiva odore di stalla. In effetti mi piaceva moltissimo passare il mio tempo con i contadini cercando di aiutarli nei loro lavori e imparare i segreti della terra.

La famiglia

In seconda liceo arrivò da Roma, Sabina. Una ragazza bellissima. Pensavamo fosse irraggiungibile o, forse, eravamo troppo stupidi noi maschi per riuscire a farci notare. Comunque e per fortuna oltre i due anni passati in classe insieme, le nostre vite sono state parallele e si sono poi incrociate durante il primo anno di università: lei iscritta a Biologia io in Economia e Commercio, studiando insieme matematica. Al secondo anno, avevamo vent’anni, abbiamo scoperto di aspettare un bambino e decidemmo di sposarci e di diventare indipendenti dai nostri genitori. Proprio quest’anno abbiamo fatto quarant’anni di matrimonio e Marco, nostro figlio, ci ha reso due volte nonni. L’arrivo di un figlio fu un cambiamento radicale. Prima di questo lieto evento avevo il desiderio di restare nel mondo universitario per fare ricerca ed insegnare. Invece, per mantenerci, entrai al Banco Lariano come sportellista e a quel punto cambiai indirizzo passando ad Economia delle aziende di credito da Economia politica. Una scelta che hai poi segnato il resto della mia vita. Ricordo con orgoglio che con il primo stipendio, 377.000 lire, entrammo in casa nostra, un regalo dei genitori di Sabina. Da allora non chiedemmo più nessun aiuto economico alle nostre famiglie. Non pensavo di entrare in banca e, soprattutto, non pensavo mi sarebbe piaciuto come poi è stato. Capii subito che la banca ha una grande responsabilità sociale perché gestisce il futuro dei propri clienti, sia quando eroga un credito, anticipando al presente un reddito futuro, che quando gestisce risparmi, spostando capacità di spesa dall’oggi al domani. Fu forse il modo con cui sono ri- uscito a coniugare la mia iniziale tendenza all’economia politica con quella bancaria e più tecnica. Gli uffici dove ho iniziato a lavorare sono oggi la sede della banca dove abbiamo ancora il nostro conto. Ogni volta che ci vado mi fa un certo effetto. È un ottimo modo per ricordarmi da dove vengo.

Il Banco Lariano e l’università

Ricordo come fosse ieri che il primo giorno ho trovato davanti a me un pacco di cambiali da timbrare e non ne avevo mai vista una in vita mia. È stato un periodo intensissimo, lavoravo, studiavo e avevamo un figlio, ma è stata anche una grandissima scuola. Ho capito di essere stato un privilegiato rispetto ad alcuni miei colleghi che avevano studiato ragioneria mentre lavoravano, ed ho imparato che ogni persona, anche la più umile ha qualcosa da darti e insegnarti. Ho poi imparato, dal basso, come funziona una banca e questo mi è servito moltissimo quando sono stato catapultato al vertice dell’allora Credito Italiano.
Ma andiamo con ordine.

La costante della mia vita professionale è stata la fortuna di aver incontrato dei capi che mi hanno insegnato moltissimo, nei modi più diversi, e che mi hanno fatto crescere spesso al di là dei miei meriti e delle mie capacità.

Al Lariano la prima svolta è stata quando, dopo tre anni di sportello, mi è stato chiesto, dato che studiavo alla Bocconi, di far parte di un gruppo di persone che riesponevano i bilanci dei clienti affidati secondo lo standard europeo per poter caricare i dati nella Centrale dei Bilanci. Sembra fossi particolarmente veloce e preciso e da lì sono passato alla Segreteria Fidi che era un ruolo particolarmente ambito. Ricordo anche che venni promosso vice capo ufficio e quando sono tornato a casa e lo ho detto a Sabina, non smetteva più di ridere. In effetti eravamo figli di due Amministratori Delegati e questa promozione poteva sembrare ridicola, ma per me era il segno che quello che facevo veniva apprezzato.

Passai tre anni a lavorare in Segreteria, dove si imparava parecchio anche sotto il profilo della responsabilità e della sua gestione. Ricordo ancora adesso che dalla Direzione della sede di Milano ci era arrivata la richiesta di valutare un cliente potenziale della nostra zona ed io, dopo aver analizzato il bilancio, avevo fatto partire la proposta di non concedere nessun credito. Questa cosa generò parecchia tensione, ma la regola era che se il proponente era negativo nessuno potesse interferire. Si può ben capire quale insegnamento fosse per un “ragazzino” di 25 anni, sia come qualità dei processi decisionali, da sopra si può dire di no, ma non si può imporre nessuna decisione positiva, sia come assunzione di responsabilità. Sapevo bene il peso del potenziale cliente e l’imbarazzo che avrei generato ai miei capi, ma pensavo fosse giusto così. Posso dire con certezza ancora oggi, dopo aver avuto ben altre responsabilità, che tutti gli errori che ho fatto, e so di averne fatto un buon numero, li ho fatti con la mia testa e in buona fede.

Al Lariano, oltre a tante altre cose, mi hanno insegnato questa indipendenza di giudizio. O meglio non è proprio così perché l’indipendenza di giudizio me l’hanno insegnata i miei genitori come regola di vita. Ma il Lariano mi ha fatto capire quanto fosse importante applicarla sempre anche nella vita lavorativa. Dopo i tre anni, sono stato nominato funzionario e andai, come Vice Direttore, in una filiale di Milano del Lariano. Erano i primi di maggio, mese nel quale con il pagamento delle imposte c’era una quantità di lavoro incredibile. Certi giorni eravamo obbligati a regolare l’accesso in banca perché sennò ci sarebbe stata troppa gente nel poco spazio dedicato alla clientela. Sembra un’altra epoca rispetto ad oggi, ma era così. Il Direttore dell’agenzia era un simpatico collega che alle cinque usciva chiedendo se le casse quadravano. Se la risposta era “no per 200.000 lire”, immancabilmente rispondeva: “se fossero 500.000 sarebbe stata peggio” e tranquillo guadagnava l’uscio. Ho dovuto imparare a mantenere la calma e a gestire anche quella situazione. Anche se questo significava rimboccarsi le maniche e per tutto il tempo necessario mettersi a fianco dei cassieri per ricostruire tutta la contabilità, contare tutti i soldi presenti in cassa, ragionare su quali potessero essere le aree nelle quali più facilmente c’era l’errore. Ai tempi non c’erano le assicurazioni per i cassieri e dovevano rifondere di tasca propria le eventuali differenze.

Un anno dopo sono diventato Direttore d’agenzia, ero il più giovane Direttore di banca di Milano e l’agenzia che dirigevo era la seconda per dimensione in tutta la banca. Una bella sfida, ma vivevo il mio lavoro come una gabbia. Facevo fatica a conciliare famiglia, studio e lavoro e iniziai a lamentarmi sempre di più in casa. Nell’estate del 1986, per migliorare il mio inglese, decidemmo che, lasciato Marco, nostro figlio, dalla nonna all’Elba, saremmo andati per un mese in Inghilterra, io a fare full immersion di inglese e Sabina, che stava facendo il dottorato in Biochimica, all’Università di Cambridge. Nel viaggio di rientro, a fronte delle mie lamentele sulla qualità della vita, Sabina mi fece una bella raman- zina sul fatto che dipendeva solo da me, che dovevo ri- prendere in mano la mia vita e che dovevamo viverla “intensamente”. Ogni volta che si è poi lamentata, molti anni dopo, che la nostra vita era troppo frenetica, gli ricordavo che era lei all’origine di questa intensità…

Rientrati a Milano, feci rapidamente gli ultimi esami e scrissi la tesi. Non posso non ricordare il Professor Ruozi, al quale sono profondamente grato, che mi riceveva alla mattina alle 7.30 in università, mi dava le correzioni al pezzo che gli avevo lasciato e riceveva il pezzo successivo. Nel 1987, ampiamente fuori corso, mi sono laureato con 110 e lode, con una tesi sugli Istituti di Credito Speciale, con relatore Prof. Ruozi e contro relatore Prof. Mottura. Quest’ultimo mi chiese una serie di approfondimenti che non mi aspettavo, ma che mi hanno dato la sensazione di aver fatto un buon lavoro. Sono stato fortunato perché con entrambi ho avuto modo di lavorare successivamente. In particolare, Paolo Mottura organizzò un tavolo di confronto con i sindacati che è stato fondamentale per il contratto di lavoro dei bancari che negoziammo con Maurizio Sella nel 1997-98. Dopo ne parlerò più approfonditamente.

Il cambio di passo

Una volta laureato, ricordo che andai – non senza timore – dalla Responsabile del Personale del Lariano facendogli più o meno questo discorso: “Paola vi sono grato per la carriera che mi avete fatto fare e per quello che mi avete insegnato. Non ho alcuna alternativa di lavoro, non chiedo promozioni, ma vorrei vedere l’azienda da un’altra prospettiva. Mi state facendo fare una carriera di linea e allora vi faccio alcune proposte di mestieri diversi che mi piacerebbe fare”. La risposta fu di promuovermi ancora e di darmi la direzione di un gruppo di filiali e circa 300 persone. Ma io decisi di andarmene lo stesso. Di provare altre strade. Penso di essere una delle poche persone, se non l’unica, che entrò in McKinsey con uno stipendio più basso di quello che aveva in precedenza e, soprattutto, ripartii dal basso. Sono stato in consulenza un po’ più di quattro anni, uno e mezzo in McK e tre in Bain. Per me è stato come frequentare un MBA. Imparai molto perché si vedevano tante situazioni diverse, sempre esposti al vertice aziendale. Imparai ad andare al cuore dei problemi. Per chi poi fece lo spin-off da McK per creare Bain in Italia, ci fu l’obbligo di valutare moltissime persone per creare la struttura e questo mi ha portato forzatamente ad imparare a valutare le persone.

Dopo quattro anni capii che mi piaceva di più la vita in azienda, avere una responsabilità diretta sulla quale essere misurato. La chiamo l’adrenalina dei risultati… come consulente i risultati sono sempre di qualcun altro. Anche qua la fortuna mi ha accompagnato. Giorgio Cirla, uno dei miei ex capi al Lariano, mi aveva presentato ad Attilio Lentati e Giulio Baseggio, quando la RAS cercava un Direttore Generale per la banca che stavano creando, Baseggio non si fidava di dare una responsabi- lità così grande a un ragazzino e non se ne fece nulla. Ma qualche mese dopo i due venivano nominati Amministratori Delegati e tutta l’area finanza veniva affidata a Lentati. Così lui mi chiamò per affidarmi la responsabilità di tutto ciò che non era assicurazioni in RAS. A 34 anni, Direttore Centrale di RAS, avevo la responsabilità di Rasbank, Dival, la rete di promotori finanziari, Cofina, la fiduciaria, e, tranne che per l’attività di gestione, di Gestiras, la società di asset management. Imparai un’altra importante lezione. Penso, infatti, che tutti i manager dovrebbero avere la fortuna di essere responsabili della gestione di una società, anche piccola, a tutto tondo. Insegna a gestire il senso di solitudine che si prova nel prendere alcune decisioni non facili. Nei tre anni passati in RAS ho conosciuto, e sono stato apprezzato, Roberto Gavazzi che era allora responsabile per Allianz, come membro del Vorstand, dei mercati europei tranne la Germania. Con Gavazzi ci vedevamo spesso perché mi aveva chiesto di entrare nel Consiglio delle società greche del Gruppo.

Gavazzi, che nel frattempo entrò nel CdA del Credito Italiano perché Allianz aveva investito nel corso della privatizzazione della banca, un giorno mi chiamò e dicendomi di apprezzare il mio lavoro e il fatto che sapevo come funzionasse una banca, mi chiese se volevo spostarmi in questa banca con la prospettiva di diventarne Direttore Generale a breve. Gavazzi non era una persona che amava sentirsi dire di no così, benché fossi felice di quello che facevo, accettai.

Incontrai diversi Consiglieri di Amministrazione della banca e creai, fin dall’inizio, un legame particolare con Achille Maramotti, fondatore del gruppo Max Mara e grande azionista di Credito Italiano. Maramotti era un grande imprenditore e una grandissima persona, ma non posso non citare alcuni altri Consiglieri che mi hanno guidato in quegli anni: Lucio Rondelli, che era il Presidente, Leonardo Del Vecchio, Giampiero Pesenti, Roberto Bertazzoni. È iniziò così l’avventura che mi ha portato, dopo soli sette mesi come Responsabile pianificazione e partecipazioni, a diventare Direttore Generale. La struttura organizzativa era, per la verità, assai strana. C’era un Amministratore Delegato che aveva un solo riporto, il Direttore Generale, dal quale dipendeva tutta la banca.

È stata una esperienza bellissima! Partita con una banca che aveva il 3,5% del mercato italiano e che ha chiuso il primo bilancio che ho firmato in sostanziale pareggio, e conclusa con una banca che aveva il 3,5% del mercato europeo e una presenza in 23 paesi.

All’inizio il Credito Italiano aveva bisogno di una profonda ristrutturazione e di un cambiamento culturale significativo. La banca aveva un ROE molto al di sotto del costo del capitale e il nostro valore di borsa era sotto il valore di libro. Ricordo che arrivai pochi giorni dopo l’OPA sul Credito Romagnolo che venne lanciata con l’idea di creare un forte radicamento locale per una banca. Il Credito Italiano aveva la quota di mercato più elevata in Liguria con un 6,5%. Il CdA, giustamente, aveva intuito che un business distributivo, come è quello della banca retail, avesse bisogno di avere una base di mercato più ampia.

Per vincere la contesa nata con Cariplo, che aveva lanciato insieme ad IMI una contro OPA, unimmo le forze alla Cassa di Risparmio di Modena e alla Banca del Monte di Bologna e Ravenna, dove lavorava Cesare Farsetti, Direttore Generale ex Credit molto aggressivo e determinato. È da notare che sia Rolo Banca che i nostri partner avevano performance molto migliori delle nostre. Questo mix, in teoria estremamente rischioso, è stato un fortissimo catalizzatore della volontà di cambiamen- to. Il CdA mi nominò Direttore Generale con decorrenza primo luglio ’95 e mi ha sempre appoggiato in modo determinato perché riuscissimo a realizzare il piano triennale che, tra il mio ingresso e la nomina, avevamo preparato con i colleghi. Spesso mi chiedono se avessimo previsto tutto quello che abbiamo poi realizzato, la risposta onesta è no. Avevamo un senso della direzione, ma non ci immaginavamo quello che, alla fine con tanti aspetti positivi ma anche con errori, abbiamo realizzato. Conclusa con successo l’integrazione di Rolo Banca, che nel frattempo si era fusa con le altre due offerenti, applicando alcune visioni innovative come la centralizzazione di tutte le attività “di produzione” dai sistemi informatici ai back office, dalla gestione del risparmio, alla tesoreria, al leasing e al factoring, il valore di borsa ha iniziato a decollare e così abbiamo potuto cogliere altre opportunità.

Nel ’98 venne proposto, a Rondelli e a me, di incontrare Biasi e Palenzona, che erano i leader di UniCredit, holding posseduta da tre Fondazioni, Verona, Torino e Treviso, che a sua volta possedeva il 100% delle tre casse di Risparmio nate in applicazione della legge Amato/ Ciampi. Le tre Fondazioni, in particolare quelle di Verona e Torino, non riuscivano a trovare un equilibrio tra loro e c’era bisogno di un terzo che diventasse il punto di equilibrio. In pochissime settimane, studiammo l’operazione e fu approvata la fusione tra Credito e UniCredit, con l’idea di avere una holding che avrebbe controllato diversi brand distributivi legati al territorio.

Le discussioni nel CdA non furono poche, soprattutto legate all’influenza che la politica avrebbe avuto, tramite le Fondazioni, nella nostra realtà, fiera di essere totalmente privata come cultura oltre che come azionariato. Difficile dire come sarebbe stata la nostra storia senza questa aggregazione. Posso dire che, nel complesso, le fondazioni hanno accompagnato tutta la nostra crescita in modo positivo, anche se le persone che le hanno rappresentate hanno influito sulla cultura interna in modo considerevole. Cerco di riassumere i passi successivi, perché sennò ci vorrebbe troppo inchiostro. Nel 1999 abbiamo lanciato un’OPA sulla Comit, nel vecchio Credito Italiano veniva considerata la sorella maggiore, ma, purtroppo, uno dei nostri advisor consigliò al San Paolo di Torino di lanciare nello stesso giorno un’altra OPA sulla Banca di Roma.

La coincidenza fece scattare una serie di meccanismi di difesa da parte di Mediobanca che sfociarono nella mancata autorizzazione da parte dell’autorità di vigilanza delle due offerte in quanto “non concordate”. C’è da ricordare che, nello stesso periodo, era in corso l’OPA su Telecom della qua- le, come Consigliere di Amministrazione, ero uno degli strenui oppositori. Mi chiedo oggi come sarebbe il panorama bancario, e non solo quello, del nostro Paese se le due offerte fossero andate a buon fine. Capito che sarebbe stato difficile per noi crescere ancora in Italia, decidemmo che fosse opportuno avere altri mercati da considerare come “domestici” e iniziammo la nostra crescita internazionale.

Partecipammo al processo di privatizzazione di Bank Pekao, la seconda banca Polacca, e vincemmo contro Deutsche Bank e Citibank. Fummo scelti perché il no- stro modello rispettoso dei brand e delle diversità locali fu ritenuto preferibile. Ho sempre pensato, sulla base delle esperienze fatte nella nostra crescita in Centro Est Europa, che noi italiani abbiamo una straordinaria capacità di gestire diversità, anche le più complesse. Questa caratteristica ci rende ben accetti dappertutto e ci consente di gestire situazioni difficili che altri non riescono a governare. Nello stesso periodo comprammo Pioneer per dare alla nostra attività di asset management un nome storico ed una presenza negli Stati Uniti. La crescita in Centro Est Europa è continuata e, quando nel 2005, si è presentata l’occasione di comprare la terza banca tedesca HVB, che tramite la controllata Bank Austria, era la seconda banca per presenze in quei mercati dopo di noi, creammo quella che chiamavamo Banca delle Regioni. Fortissima nel cuore dell’Europa più ricca, Baviera, Austria e Nord Italia e leader incontrastato in Centro Est Europa.

Non posso dimenticare che nel 2001, nel pieno della crisi turca, decidemmo di entrare in quel paese comprando il 50% della sub-holding finanziaria del Gruppo Koç. Insieme a loro poi, nel 2005, comprammo Yapikredi che, fusa con la banca Koç diventerà una delle più grandi banche turche. Ci tengo a sottolineare che, in questo percorso, ho fatto degli errori, ma che, ancora oggi, la redditività del Gruppo bancario che ho diretto nasce essenzialmente dalle presenze estere.

La crisi del 2007

Nel 2007, nessuno si aspettava arrivasse la crisi e, dopo lunghe ed approfondite valutazioni, nelle quali mi era chiaro che sarei stato molto criticato per la scelta che stavo per fare, decidemmo di fonderci con Capitalia dopo che Banca Intesa si era fusa con il San Paolo di Torino. Nell’agosto del 2007 è iniziata la crisi e le dimensioni del gruppo, la sua multinazionalità in un’Europa che tendeva e rialzare i confini nazionali, la qualità del credito in Italia, lo sbilancio di liquidità che avevamo ereditato da Capitalia, resero la nostra vita molto difficile e richiesero una serie di aumenti di capitale. È stato un periodo estremamente difficile e faticoso, durante il quale son nate anche molte tensioni interne al management. Portai avanti l’istituto sino al 2010. Lasciai la banca che avevo contribuito a creare dopo 16 anni.

Oltre la banca

Negli anni di Credito Italiano e di UniCredit ho avuto la fortuna di svolgere anche altre funzioni come Consigliere di Amministrazione in diverse società (Falck, RCS, Mediobanca, Telecom per citare le più importanti) di associazioni di categoria (ABI, Assonime, FeBAF) o di associazioni internazionali (sono stato Presidente dell’IMC- International Monetary Conference, dove partecipano Presidenti o CEO delle più grandi banche mondiali e Presidente dell’European Banking Federation, l’associazione delle banche europee dove mi sono speso in modo significativo per la creazione del libro unico delle regole e del supervisore europeo).

Ho sempre pensato che dedicarsi all’attività associativa, facesse parte dei miei doveri di banchiere.
Voglio citare due esperienze molto positive al riguardo. La prima è stata l’attività sindacale e la seconda il rapporto che ho avuto con Tommaso Padoa-Schioppa nel suo periodo come Ministro dell’Economia e Finanze. Ho detto, parlando del Prof. Mottura, di una sua ini- ziativa connessa alle relazioni sindacali. Nel 1996 chiese all’ABI e ai sindacati nazionali dei bancari se volevamo sederci intorno ad un tavolo per condividere lo scena- rio che i cambiamenti esterni come l’ingresso nell’euro, l’abbassamento dei tassi e i primi cambiamenti tecnologici rilevanti, avrebbero portato al nostro mondo.

Fu una iniziativa veramente lungimirante che generò due risultati molto utili per la successiva negoziazione contrattuale:
• si creò una conoscenza ed una fiducia fra le cosiddette “controparti” che ci consentì successivamente di discutere, anche con posizioni diverse, ma sempre con un incredibile rispetto reciproco;
• condividemmo gli impatti dello scenario e quindi avevamo una base comune per discutere.
Se dovevamo definire una ripartizione dei margini tra lavoro e capitale, secondo termini che sembrano ora desueti, ma che sono sempre utili, condividevamo quale potesse essere l’andamento di questi margini.

La successiva negoziazione, condotta da Maurizio Sella, come Presidente del CASL – Comitato Affari Sindaca- li e Lavoro dell’ABI – con al fianco Carmine Lamanda e me, fu lunga e difficile, ma ottenemmo risultati impor- tanti sia sotto il profilo normativo che economico. Per me fu una scuola incredibile, giovane Direttore Generale del Credito, correvo il grosso rischio di montarmi la testa. Mia moglie in casa e i sindacati sul lavoro, mi fecero capire che il mondo non era bianco e nero, come potrebbe pensare un giovane che raggiunge posizioni di potere, ma è fatto da una infinita tonalità di grigio. Nel corso della negoziazione ho imparato che ci si alza dal tavolo sempre con una posizione diversa da quella con la quale si è partiti e il compromesso non è un segno di debolezza, ma di forza e intelligenza. Questi insegnamenti mi sono stati molto utili quando, nel 2014, ho assunto la Presidenza del CASL e condotto le trattative per il rinnovo contrattuale oggi vigente.

Al fianco di Padoa-Schioppa

L’altra esperienza interessante è stata aiutare il Ministro Padoa-Schioppa nel suo lavoro di convincimento all’interno dell’Ecofin sull’opportunità di avere un libro unico delle regole bancarie in Europa. Come UniCredit vivevamo tutti i giorni le differenti applicazioni di regole apparentemente uguali nei vari paesi nei quali eravamo presenti. Così facemmo un lavoro di grande dettaglio per spiegare casi concreti e le loro conseguenze.
Padoa-Schioppa presentò questo lavoro all’ultimo Ecofin al quale ha partecipato, sembrava dovesse cadere nel vuoto, ma dopo pochissimi anni quella realtà si è concretizzata con l’EBA e poi con la creazione del super- visore unico.

Monte dei Paschi di Siena

Dopo il 2010 non pensavo di rientrare in una banca, ero amareggiato per come si era conclusa la mia esperienza ad UniCredit e volevo dedicarmi ad iniziative personali. Ma nel 2011 ricevetti una telefonata da Fabrizio Saccomanni, allora Direttore Generale di Banca d’Italia, che mi chiedeva di prendere un caffè da lui. In realtà mi chiese se ero disponibile ad assumere una posizione di vertice in MPS. Dissi subito di no per la carica di AD. Iniziai però a chiedermi se potessi considerare di fare o meno il Presidente. Sabina era totalmente contraria, aveva ben chiaro che il settore continuava ad avere seri problemi di reputazione, ma né lei né io avevamo un’idea dei problemi specifici che ci sarebbero stati.

Dopo un periodo non breve di riflessione decisi di accettare di fare il Presidente, precisando subito e bene che sarebbe stato per un solo mandato e che non volevo compensi per la carica. Le motivazioni sono state diverse, principalmente l’idea di fare qualcosa di auspicabilmente utile per un settore che mi aveva dato tanto e per il Paese che, con un eventuale dissesto della terza banca per dimensioni, sarebbe stato commissariato. Ricercavo forse un senso di riabilitazione, dopo essere stato mandato via dalla banca, che di fatto avevo creato, nel corso di un weekend. Sono convinto di aver fatto un buon lavoro come Presidente, con un grande affiatamento con l’allora Amministratore Delegato Fabrizio Viola, nonostante il continuo deterioramento dello scenario esterno che ha reso quasi impossibile il nostro lavoro. Anche se è stato necessario l’intervento del Tesoro, comunque molto limitato in proporzione al costo di altre crisi di banche ben più piccole, la banca esiste ancora e non sono sicuro che questo sarebbe successo senza il lavoro fatto in quegli anni.

Basta banche

Nel 2015, dopo tre anni e sei mesi, ho lasciato la carica così come avevo annunciato sin dall’origine ed ho iniziato un’attività imprenditoriale che, seppure breve, mi ha dato grande soddisfazione. Con la mia famiglia abbiamo investito in Equita, investment bank indipendente italiana di grande qualità, ed ho assunto la carica di Presidente. Finalmente potevo tornare ad incontrare dei clienti, essenzialmente imprenditori, con i quali discutere del futuro delle loro imprese.

Dopo aver speso più tempo a gestire una organizzazione, quindi più rivolto all’interno che all’esterno, poter dedicare energia verso l’esterno dell’azienda era veramente bello. La qualità delle persone di Equita era poi una sicurezza, perché ho sempre avuto la certezza che la qualità del lavoro fatto per i clienti sarebbe stata alta. A marzo di quest’anno, stavo pranzando con un ex collega, quando vedo sul cellulare apparire il numero di Palazzo Chigi, in genere non rispondo durante i pranzi, ma in questo caso ho pensato che lo dovessi fare. Sono stato messo in contatto con il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, che mi ha chiesto, anche a nome del Ministro Padoan, di tornare a servire lo Stato.

Non riuscivo ad immaginare in cosa avrebbe consistito la proposta, e quando mi ha detto che pensava che potessi essere una buona soluzione come AD di Leonardo, società dell’aerospazio e difesa, sono rimasto assolutamente sorpreso. Come si dice a Milano “basito”. Un inaspettato rimettersi in gioco totalmente a 60 anni. Le caratteristi- che che mi hanno fatto considerare come un buon can- didato sono state – secondo chi mi ha scelto – la visione internazionale, Leonardo fa l’82% del suo giro d’affari all’estero; la capacità strategica, il settore sta cambiando radicalmente nella prospettiva della difesa europea; la capacità di gestione di una organizzazione complessa, Leonardo ha otto divisioni. È presto per dare un giudizio sulla mia nuova avventura, ma dopo pochi mesi sono entusiasta di trovarmi a gestire un’azienda industriale, con una forte attività di ricerca e a tecnologia avanzata. Il resto si vedrà…