Austerity, di Veronica De Romanis – (Economista)

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Tratto da “ Lessico Finanziario “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore

Le politiche di austerità, ossia quelle misure volte a ridurre il disavanzo e, quindi il debito pubblico, attraverso tagli alla spesa o aumenti della tassazione, sono spesso interpretate come fattore di recessione e di ineguaglianze. Per questo, molti leader chiedono a Bruxelles di mettere fine a queste politiche per far spazio alla crescita. In realtà, l’austerità non è imposta dall’Europa, né tantomeno dalla Germania: è il frutto delle decisioni dei Governi nazionali che hanno lasciato che i conti pubblici finissero fuori controllo.
Quando si è vissuto per molto tempo al di sopra dei propri mezzi, continuare ad accumulare debito non è una strada percorribile: arriva un momento in cui la fiducia degli investitori viene meno perché temono di non poter essere rimborsati, e di conseguenza, smettono di comprare titoli di debito pubblico. A quel punto, senza più l’accesso ai mercati, per ottenere finanziamenti non resta che rivolgersi ai partner europei. Questo è ciò che hanno fatto Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro quando sono entrati in crisi. In cambio degli aiuti, i creditori hanno chiesto loro, da un lato, riforme per far ripartire l’economia, dall’altro un piano di consolidamento per mettere in sicurezza le finanze pubbliche. L’obiettivo è quello di creare (o ricreare) le condizioni affinché il paese debitore possa in futuro rimborsare il prestito ricevuto. Queste condizioni, nella narrazione che ha prevalso negli anni della crisi, hanno via via acquisito una connotazione negativa. A guardar bene, però, i creditori dei paesi in crisi, non sono altro che i cittadini europei, inclusi quelli più poveri, come gli estoni o i lituani. Questi ultimi hanno contribuito finanziariamente a tutti i piani di aiuti, a cominciare da quelli ellenici, nonostante abbiano una ricchezza procapite tra le più basse d’Europa e di gran lunga inferiore a quella dei loro debitori. In quanto membro del “Club dell’euro” non avrebbe potuto fare diversamente: condividere la stessa moneta implica anche essere solidali con chi è in difficoltà, altrimenti, la crisi di un singolo rischierebbe di espandersi e contagiare l’intera area, con conseguenze negative per tutti gli stati membri. L’austerità, quindi, in certi momenti, è inevitabile, sebbene non tutti i programmi di aggiustamento sortiscano lo stesso effetto sull’economia. Tali effetti dipendono in gran parte dal modo in cui il programma viene implementato. Da una parte c’è un’austerità “buona” che ha un impatto espansivo sull’economia e prevede meno tasse, una ricomposizione della spesa verso investimenti e infrastrutture, ed è sostenuta da un piano di riforme strutturali. Dall’altra parte, c’è quella “cattiva” che, invece, è recessiva perché aumenta (molto) le tasse, e riduce (poco) la spesa corrente (per intenderci, il comparto che finanzia la macchina dello Stato e va dagli stipendi dei dipendenti pubblici ai costi per le auto blu). Il problema è che questa austerità “cattiva” tende a prevalere, perché politicamente meno impegnativa: un tratto di penna è sufficiente per innalzare le tasse, mentre diminuire le spese significa esporsi a lunghe negoziazioni con centri di interesse organizzati e influenti, un’operazione che comporta una inevitabile perdita di consenso – almeno nell’immediato. Da un’analisi dei dati emerge che i paesi che, negli ultimi cinque anni, hanno implementato l’austerità “buona”, e quindi hanno tagliato le spese improduttive, oggi crescono: l’Inghilterra supera il 2 per cento, la Spagna il 3 per cento, l’Irlanda sfiora il 7 per cento. L’Italia che, invece, la spesa l’ha aumentata, è ferma allo 0,8 per cento. In definitiva, è un errore pensare che esista un unico modello di austerità. Si può dire, piuttosto, che esistono tipi diversi di piani fiscali, alcuni recessivi e altri no. Peraltro, se i Governi rispettassero le regole fiscali – che per inciso, hanno tutti discusso, concordato e sottoscritto – e pertanto tenessero i conti in ordine, il debito non si accumulerebbe e dell’austerità non ci sarebbe neanche bisogno. E poi, quale potrebbe essere l’alternativa. Se si continua a lasciar salire il debito, chi poi lo pagherà, con quali risorse? L’esperienza insegna che non è con il debito che si crea lo sviluppo; altrimenti l’Italia, con un rapporto debito-PIL che nel 2016 ha sfiorato il 133 per cento, il secondo più elevato dell’area dell’euro, non sarebbe il fanalino di coda. Inoltre, mantenere finanze pubbliche in ordine rende trasparente l’azione di Governo. Quando le spese sono finanziate con tagli ad altre voci di spesa o con aumenti delle tasse è facile per i cittadini valutare la bontà dell’intervento: il rapporto tra i costi e i benefici è diretto e facilmente quantificabile. I politici “anti-austerità”, all’opposto, preferiscono finanziare la spesa in disavanzo, perché ciò consente loro di intestarsi i vantaggi nell’immediato, in base alla logica – sempre valida – “più spese più consenso”, spostando gli oneri al futuro. L’austerità, dunque, dovrebbe essere considerata alla stregua di una vera e propria “riforma”, probabilmente la più importante, perché, impedisce questo iniquo trasferimento di responsabilità nel tempo. In altre parole, l’austerità toglie potere alla politica per ridarlo ai cittadini. Da qui l’ambiguità, o l’accezione negativa, con cui essa viene presentata. Peraltro, quando i leader di partito dichiarano “basta con l’austerità, ora ci vuole la crescita”, stanno compiendo – alcuni inconsapevolmente per la verità – un errore di fatto e anche un errore di prospettiva, perché scambiano quello che è un obiettivo – la crescita – per uno strumento – l’austerità. In conclusione, l’austerità se attuata bene consente di pianificare un uso responsabile delle risorse scarse, e di conseguenza, fa crescere un’idea condivisa di bene comune. Si tratta di un passaggio necessario, soprattutto per un paese come l’Italia dove il debito dello Stato è percepito come un’entità astratta, un numero privo di significato, un fardello che non merita attenzione perché – di fatto – non appartiene a nessuno; e, invece, non è altro che una pesante ipoteca che grava sul futuro dei giovani. Per questo, implementare l’austerità e tenere i conti in ordine, contribuisce a rafforzare la responsabilità nei confronti degli altri e, di conseguenza, qualifica il grado di civiltà di un paese.