Barbara D’Urso e ultra-garantiti: così la cultura muore in silenzio

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«Un preconcetto ancora solidamente radicato fa ritenere a moltissimi che il teatro sia uno dei tanti luoghi di divertimento più o meno onesto, a seconda dei casi, la cui mancanza non deve ritenersi un danno, anzi per molti deve ritenersi una fortuna. Perciò nessuno ha fatto rilevare e ha deplorato che a Torino da più di un mese e mezzo non sia aperto nessun teatro degno di tal nome, e non si è domandato quale sia la causa dello strano avvenimento». Antonio Gramsci scrisse queste parole il 21 agosto 1916 in piena Prima Guerra mondiale. La Torino di allora è l’Italia di oggi: forse anche noi siamo in guerra perché poco è cambiato. Con la forza della disperazione (che cos’altro credete che capiti a un lavoratore precario che da dodici-mesi-dodici è senza impiego?), i teatranti lasciati soli si sono aggrumati intorno ai loro simulacri (i teatri, appunto) la sera di lunedì scorso. Lo hanno fatto perché qualcuno «facesse rivelare e deplorasse» la chiusura dei teatri.

Curiosamente, ha fatto pendant a questa addolorata manifestazione una succinta dichiarazione del segretario del Pd, Nicola Zingaretti, a democratico sostegno di Barbara D’Urso e del suo brillante giornalismo politico: «In un programma che tratta argomenti molto diversi tra loro hai portato la voce della politica vicino alle persone. Ce n’è bisogno!». Una volta si sarebbe detto che, in questo modo, un partito che ancora oggi vorrebbe dirsi di sinistra ha completato la sua mutazione genetica. È Barbara D’Urso, dunque, a «portare la politica vicina alla gente». Presto – magari – arriverà un’ulteriore dichiarazione: «Barbara D’Urso è un punto di riferimento fortissimo per tutti i progressisti».

Ma facciamo parlare ancora Antonio Gramsci il quale, con ogni evidenza, doveva avere un’altra idea della politica e delle persone, rispetto a Zingaretti: «Non è certamente la guerra coi suoi contraccolpi che ha determinato la clausura. Al contrario, la mancanza di un ritrovo non banale ha dato luogo a un pullulare malsano di Varietà e di canzonettisterie (la tv commerciale di oggi? ndr), nelle quali, per disperazione, vanno a finire tutti gli annoiati, non solo, ma anche tutti quelli che dopo una giornata di lavoro febbrile e pesante, sentono la necessità di una serata di svago, sentono il bisogno di una occupazione cerebrale che completi la vita, che non riduca l’esistenza a un puro esercizio di forze muscolari. Poiché questa è una delle ragioni che dànno un valore sociale al teatro. Accanto all’attività economica, pratica, e all’attività conoscitiva, che ci rende curiosi degli altri, del mondo circostante, lo spirito ha bisogno di esercitare la sua attività estetica. L’impastoiare questa è un limitare arbitrariamente la nostra personalità; ed essa si vendica, a nostre spese. L’astinenza artificiosa porta al vizio solitario: l’assenza di possibilità buone per la ricreazione intellettuale fa sfungare i ritrovi più o meno osceni, dove si logora una apprezzabilissima parte di noi stessi e si pervertisce il gusto».

Perché la faccenda è proprio qui: il problema non è soltanto nella chiusura dei teatri (il Ministero della Cultura ha riversato assai soldi sui garantiti del teatro italiano) ma è soprattutto nel silenzio circostante. Nel fatto che – per esempio – la chiusura delle piste da sci ha campeggiato per giorni in cima ai notiziari (tv, web o carta) in forza del dissesto economico che essa comporterebbe, mentre nessuno ha argomentato il dissesto intellettuale procurato dalla sempre più pervasiva convinzione che si possa fare tranquillamente a meno di cinema, teatro, opera, musica di ogni genere, arte, biblioteche e compagnia bella. L’opinione corrente, insomma, è che la cultura e la comunicazione artistica siano superflue, vezzi per dandy del pensiero. Giacché poi, le persone hanno tutte le D’Urso d’Italia a disposizione per soddisfare la loro (eventuale, molto eventuale) sete di conoscenza.

Ci può essere di più e di peggio? Sì, c’è. Ed è il modo in cui il teatro è stato gestito in questi dodici mesi. Quando si dice che i teatri sono chiusi e che gli attori sono senza lavoro si dice una mezza verità. Perché poi i teatri pubblici (Teatri Nazionali e Teatri di Rilevante Interesse Culturale) sono ben aperti e funzionanti: sfornano piccole e grandi invisibili rappresentazioni che occupano canali web variamente gestiti. E in queste rappresentazioni, naturalmente, vengono impiegati attori e tecnici con solidi rapporti (artistici…) di amicizia con i direttori dei medesimi teatri pubblici. Di più e di peggio, insomma, c’è che la chiusura dei teatri ha innalzato all’ennesima potenza il clima corruttivo che annichiliva il teatro italiano già prima del Covid. La geografia dei direttori/ultra-garantiti ha costruito intorno a sé una rete di protetti: le numerose produzioni che attualmente occupano i teatri pubblici aperti rappresentano una ciambella di salvataggio solo per una assoluta minoranza di teatranti rispetto ai disperati cui si è fatto cenno all’inizio. Una minoranza di garantiti, di amici, di fortunati: chiamateli come vi pare. Naturalmente è la politica a nominare i direttori dei teatri pubblici (il segretario del Pd che pure scende in piazza virtualmente per la D’Urso ha direttamente partecipato alla festa delle poltrone teatrali): il guaio è che quasi mai i nominati sono risultati i migliori alla prova del pubblico, ossia delle zingarettiane persone. Però, certo, tutti hanno brillato e brillano per autoreferenzialità. Il Covid ce lo ha dimostrato in modo scandaloso e drammatico contemporaneamente.

Ma siccome noi siamo gramsciani ossia, pur nel pessimismo della ragione, dominati dall’ottimismo della volontà, chiudiamo con l’esortazione del nostro maestro: «Non è vero che il pubblico diserti i teatri; abbiamo visto dei teatri, vuoti per una lunga serie di rappresentazioni, riempirsi, affollarsi all’improvviso per una serata straordinaria in cui si esumava un capolavoro, o anche più modestamente un’opera tipica di una moda passata, ma che avesse un suo particolare cachet. Bisogna che ciò che ora il teatro dà come straordinario diventi invece abituale. Shakespeare, Goldoni, Beaumarchais, se vogliono lavoro e attività per esser degnamente rappresentati, sono anche al di fuori di ogni banale concorrenza. D’Annunzio, Bernstein, Bataille avranno sempre maggior successo al cinematografo; la smorfia, il contorcimento fisico, trovano nel film materia più adatta alla loro espressione. E le inutili noiose, insincere tirate retoriche ritorneranno a essere letteratura, nient’altro che letteratura, morta e seppellita nei libri e nelle biblioteche». Occorrerà aspettare, però. Sennonché, nel frattempo, non lasciate soli i teatranti.                  Di Nicola Fano