Camillo Venesio, Amministratore Delegato e Direttore Generale di Banca del Piemonte

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Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore

Sono nato in una famiglia di imprenditori, la cui impresa è una banca, Banca del Piemonte, fondata a Torino il 26 aprile del 1912.
L’inizio della storia bancaria della mia famiglia risale agli anni ’20 del Novecento; mio nonno, che si chiamava Camillo come me, era nato nel 1900, i suoi genitori avevano una salumeria a Casale Monferrato, si laureò in Economia e Commercio a Torino, così come mia nonna, che fu una delle prime donne a laurearsi; nella seconda metà degli anni ’20 ebbe un’esperienza professionalmente molto interessante in una banca appartenente a un grande finanziere e imprenditore di quei tempi che abbandonò nel 1929 per profonde diversità nelle impostazioni strategiche e operative; più volte mi ripeté che in quella sua esperienza aveva imparato “tutto quello che non si deve fare in banca”. Alla fine del 1930 l’allora Banca Anonima di Credito aveva una filiale, sette dipendenti ed era in crisi, come molte altre banche in quel periodo; il Presidente chiese a mio nonno se voleva provare a rimetterla in sesto, mio nonno rispose di sì, concordò uno stipendio molto basso, se avesse avuto successo avrebbe dovuto essere pagato con le azioni della Banca. Nel novembre del 1930 fu cooptato nel Consiglio della Banca, assumendo la carica di Amministratore Delegato il 1° dicembre.
Le cose andarono bene: “A lui, al dott. Venesio, confidammo l’avvenire della banca alla quale per quasi un ventennio avevamo dedicate le maggiori cure e il meglio di noi stessi. Sotto il vigoroso impulso del giovane banchiere che all’intelligenza viva, all’attività indefessa, all’audacia contenuta accoppia una tecnica di primo ordine, una ponderatezza da uomo maturo ed una prudenza che non si lascia abbacinare da falsi miraggi, l’istituto si risollevò brillantemente, conseguendo assai presto uno stato di solidità, di sviluppo e di liquidità che dianzi sarebbe stato follia sperare”, sono frasi tratte da uno scritto venato di orgoglio per il raggiungimento dei primi venticinque anni di vita della Banca, nella primavera del 1937. Mio nonno e la sua famiglia diventarono i principali azionisti.
Sempre nello stesso documento: “… e dicendo primo venticinquennio intendiamo affermare che nell’animo nostro vive non soltanto l’augurio, ma eziandio la certezza che al primo seguiranno altri più forti e floridi venticinquenni, improntati tutti alla stessa retta e gagliarda operosità”. In genere è molto difficile che questo tipo di certezze si avveri, in questo caso avevano ragione. Sul finire del marzo 2012, pochi giorni prima che si spegnesse mio papà Vittorio, nel breve discorso che feci al Teatro Regio di Torino davanti alle autorità e a migliaia di clienti, dipendenti, collaboratori e amici per i festeggiamenti dei 100 anni di Banca del Piemonte, il terzo venticinquennio dal 1937, ricordai le sensazioni forti che in quel momento avevo, insieme alle mie sorelle e ai nostri giovani figli che rappresentano la quarta generazione: orgoglio, riconoscenza, determinazione, entusiasmo, umiltà. Orgoglio, per essere arrivati al centesimo compleanno, passando attraverso due guerre mondiali, una guerra civile e la resistenza, nel corso della quale mio nonno aveva aiutato numerosi amici partigiani e per questo fu arrestato per brevissimo tempo nei terribili ultimi mesi della guerra, periodi di straordinaria crescita e grandi crisi economiche, cambiamenti tecnologici e di costume incredibili. Riconoscenza, per tutte le persone che nel primo secolo della Banca hanno lavorato con noi, perché fare banca è prevalentemente una questione di persone. Determinazione a continuare, consapevoli che le imprese che durano sono quelle che sanno reinventarsi. Entusiasmo, perché la sfida è affascinante, pur nelle mille difficoltà, ci sono grandi fatiche, momenti di abbattimento e delusione ma anche grandi soddisfazioni, di riuscire a far le cose bene, di crescere, di aver anche una funzione sociale. Umiltà infine, perché tutto quanto di buono è stato fatto non è per niente garanzia che tutto continui a funzionare in futuro, se le cose vanno bene non è assolutamente detto che continuino ad andar bene, non bisogna mai mollare la presa. Già nel 1937 è ben chiarito uno dei pilastri strategici seguiti fin da allora dalla mia famiglia e che è una delle ragioni principali del fatto che Banca del Piemonte è ancora oggi una banca regionale indipendente tra le più solide in Europa: “La Banca, allora come oggi, non fece mai suo obbiettivo precipuo il guadagno. Ciò che sopratutto cercò per sé fu di crearsi delle riserve e di rafforzare queste al fine di garantire i depositanti e di premunirsi contro le sorprese del destino. Gli azionisti si accontentarono sempre di un modesto dividendo e seppero anche rinunziarvi senza far lamento tutte le volte che le circostanze lo richiesero”. Nel 1947 mio nonno fondò, nella città dove era nato, la Banca di Casale e del Monferrato, che si sviluppò per trent’anni nei territori agricoli e industriali del Monferrato; alla fine degli anni ’70 le due realtà bancarie, entrambe dirette da mio papà Vittorio, erano molto cresciute: la Banca Anonima di Credito, nelle zone industriali di Torino e provincia operando con le piccole e medie imprese, gli artigiani, i commercianti; la Banca di Casale e del Monferrato in prevalenza raccogliendo e amministrando i risparmi delle famiglie, sempre operando in modo semplice, veloce ed efficiente, con molta attenzione all’innovazione tecnologica; alla fine del 1978 fu decisa una fusione tra le due banche con un’operazione allora molto innovativa, che diede vita a Banca del Piemonte. Io sono nato a Torino nel novembre del 1953, nel pieno del miracolo economico italiano che ha consentito a una nazione prevalentemente agricola, arretrata, povera di materie prime e scarsamente organizzata di diventare la seconda economia industriale d’Europa e una delle prime al mondo. Torino e il Piemonte erano uno dei centri di quell’impetuoso sviluppo e le due banche fecero registrare, anno dopo anno, tassi di crescita molto importanti. Ho avuto una infanzia serena, figlio e nipote di imprenditori di pensiero liberale, einaudiano nel rigore delle analisi, dotati di un solido pragmatismo abbastanza tipico per le nostre terre piemontesi, sono cresciuto con profondo rispetto per le grandi democrazie occidentali che ci avevano aiutato ad abbattere la dittatura e a uscire dal disastro della Seconda Guerra Mondiale; certamente il pensiero della Banca è stato sempre presente nella mia vita, fin da quando ho ricordi. Ho sempre frequentato, così come le mie due sorelle più piccole, le scuole pubbliche e stretto amicizie con bambini e poi ragazzi e ragazze di tutte le categorie sociali, cosa che ha decisamente aiutato la mia formazione e i primi tentativi di comprendere le realtà del mondo che mi circondava. Sono sempre andato bene a scuola e la ragione principale era che studiavo. Amavo lo sport in generale e il calcio in particolare, cercavo di giocare a pallone il più sovente possibile, purtroppo non ho mai avuto talento, correvo tanto con una discreta visione del gioco, per il resto solo impegno e volontà, insieme a tanto divertimento. Quando sul finire della primavera del 2006 Gianluigi Gabetti mi chiese di entrare nel Consiglio di Amministrazione della Juventus, la più importante società di calcio italiana, quotata in borsa, che stava vivendo in quei giorni una terribile crisi, chiesi un fine settimana per analizzare i dati e pensarci a fondo, ma in cuor mio avevo la risposta pronta appena ascoltata la domanda. In Juventus è stata una lunga, faticosa, a tratti lacerante, entusiasmante storia. Come componente del Consiglio, del Comitato Esecutivo, del Comitato Controlli e Rischi e del Comitato Nomine e Remunerazioni ho vissuto in dieci anni prima la distruzione, in poche settimane, di gran parte di quanto costruito in precedenza, poi la faticosa e complessa ricostruzione, con gli inevitabili errori, il grande impegno profuso dai nuovi dirigenti sotto la Presidenza di Cobolli Gigli e finalmente il rinnovato straordinario successo sportivo e societario, nazionale e internazionale, realizzato da un gruppo coeso di persone intelligenti, capaci e determinate – in campo e nella società – con la guida moderna e illuminata di Andrea Agnelli. Negli anni delle scuole superiori sono stato all’estero – in collegi svizzeri e poi a Cambridge in Inghilterra – per imparare bene le lingue straniere e soprattutto per aprirmi la mente: talvolta è stata dura all’inizio, ma poi solo tanti ricordi meravigliosi, di studio, sport e tanti amici; i libri, alcuni classici e tanti altri scrittori, hanno allora incominciato ad accompagnarmi.
Mi sono laureato in Economia e Commercio a Torino a 23 anni con 110 lode e menzione, una tesi di ricerca in Macroeconomia e relatori il compianto Giorgio Rota e Mario Deaglio; molti anni dopo, nel 2006, sarei stato premiato come Laureato dell’Anno. Ricordo intensamente gli anni dell’università, i tempi erano difficili, crisi economiche e terrorismo, ma ho sempre studiato con persone che sono poi rimaste tra i miei più cari amici, mia moglie l’ho conosciuta in quelle aule. Con loro viaggiavo in auto e tenda nelle estati degli anni ’70, in prevalenza nel nord del mondo, in Europa continentale, nei fiordi, nelle isole boscose e in quelle battute dai venti dei paesi scandinavi e in Scozia, in tutto il Nord America fino a dove arrivavano le strade allora in Alaska; telefonvamo a casa a turno una volta la settimana. In quei tempi ebbi una prima concreta consapevolezza della forza dei ragionamenti rigorosi e lineari in economia: una sera a casa di amici a Torino, avevamo vent’anni, si discuteva di tutto, erano tempi bui per l’Italia, tra noi giovani tante confuse idee anche rivoluzionarie, il terrorismo che colpiva con crescente intensità. Ricordo una bella ragazza che sosteneva con forza idee proprie dell’estremismo intollerante di una parte della sinistra di allora, che faceva con molta convinzione di- scorsi di rivoluzione totale; e poi? chiedevo io, dopo la rivoluzione, quale modello produttivo, quale modello distributivo applicherete in un paese strutturalmente povero di materie prime e di capitali? La convinzione delle mie domande e la pochezza delle risposte – del tipo “a questo penseremo dopo” – mi fecero percepire, quasi epidermicamente in quel momento, l’importanza concreta delle teorie economiche che stavo studiando. L’inizio della mia vita professionale è segnato dalla prematura scomparsa di mia mamma, che ha lasciato per lunghi anni il segno su tutta la mia forte e unita famiglia. Probabilmente per il contesto culturale in cui sono cresciuto – la Banca era l’impresa di famiglia ma soprattutto era una parte della famiglia – non mi pare di aver mai seriamente pensato a impegni professionali alternativi; così dopo alcune brevi esperienze in banche negli Stati Uniti ho iniziato a lavorare come impiegato amministrativo, utilizzando grosse macchine elettromeccaniche. La fusione tra le due banche, a Torino e a Casale Monferrato, mi dette la possibilità di avventurarmi in campi dove nessuno in azienda aveva alcuna esperienza: l’integrazione culturale, quella informatica, l’unificazione dei processi, dei prodotti, i nuovi controlli; mi accorsi che una organizzazione più sistematica era essenziale per raggiungere obiettivi di migliore efficienza, impor- tanti anche se le banche erano entrambe sane e con buone redditività. Costituii il Servizio Organizzazione di cui divenni il primo responsabile e unico componente per un po’ di tempo. Dal 1983 divenni prima Amministratore Delegato, il più giovane allora in Italia, poi Direttore Generale di Banca del Piemonte. Con i ricordati principi la Banca ha proseguito nei decenni successivi la sua crescita in Piemonte e poi anche in Lombardia, dinamica ma allo stesso tempo prudente, con la costante attenzione alla solidità e al buon servizio ai clienti, mantenendo sempre ben chiare le linee strategiche di lungo periodo. Lavorava con le piccole e medie imprese, le famiglie, gli artigiani, i commercianti, i professionisti in modo semplice, veloce e trasparente, i grandi investimenti in innovazione tecnologica e in professionalità hanno consentito di sviluppare progressivamente servizi efficienti anche per i grandi gruppi industriali e per le famiglie con esigenze complesse di gestione dei risparmi. Tutto questo grande impegno e i positivi risultati ottenuti hanno contribuito all’assegnazione della prestigiosa onorificenza di Cavaliere del Lavoro, nel 2003, prima di compiere cinquant’anni, un’età molto giovane ma io l’ho sempre ritenuto un riconoscimento anche alle generazioni che mi hanno preceduto. Intorno a me sono cresciuti manager capaci e leali, molte belle persone, con alcune di loro ho sviluppato solidi rapporti di amicizia. Da pochi anni, dopo lunghi periodi di studio e di lavoro in Italia e all’estero in Europa, negli Stati Uniti e in Canada, con eccellenti risultati, sono entrati in Banca del Piemonte anche i miei due figli Matteo, che oggi è il responsabile della Funzione Modelli e Strategie e Carla, responsabile del Wealth Management e Private Banking; il loro inserimento all’interno del gruppo manageriale di vertice di Banca del Piemonte ha contribuito a rafforzare la determinazione verso il cambiamento e l’innovazione. A partire dal 1998, con la nuova, dinamica Presidenza di Maurizio Sella in Associazione Bancaria Italiana (ABI), mi sono occupato anche di questioni nazionali ai massimi livelli, collaborando con quattro Presidenti, Maurizio Sella, Corrado Faissola, Giuseppe Mussari e Antonio Patuelli, per cinque mandati sono stato Vice Presidente dell’ABI, carica che rivesto tuttora. Nell’Asso- ciazione nazionale delle Banche Private (prima Assbank, ora Pri.Banks) sono stato Presidente dal 2003 al 2016. In questi lunghi anni con grande impegno ho cercato di portare un forte contribuito alla modernizzazione e all’immagine delle banche, in particolare di quelle medie e piccole, cercando di sfatare antichi e moderni luoghi comuni e gestendo le numerose crisi, consapevole che le banche – di tutte le dimensioni – sono una infrastruttura essenziale per un paese come il nostro dove il 95 per cento delle imprese ha meno di dieci dipendenti e dipende in larga parte dal credito bancario; allo stesso tempo ho cercato di rappresentare i legittimi interessi del mondo bancario in un contesto di massima trasparenza e in contrasto con atteggiamenti che talvolta sconfinavano nella demagogia e nel populismo. Come rappresentante italiano per i sistemi di pagamento internazionali nel 2002 sono stato tra i firmatari costituenti a Brussels della Single Euro Payments Area, l’Area Unica dei Pagamenti in Euro. Le diverse cariche in ABI mi hanno consentito di svolgere un ruolo determinante in alcuni passaggi molto complessi della vita economica del nostro Paese. Un solo esempio: i “sei giorni di fuoco” della fine di gennaio del 2013. È necessaria una premessa: nel 2010 Corrado Faissola, Presidente uscente di ABI, avrebbe potuto essere rieletto, ma le grandi banche intendevano sostituirlo con Giuseppe Mussari, allora Presidente del Monte dei Paschi di Siena ed erano molto decise e determinate: ci vuole una persona più decisa e autorevole in grado di rappresentare meglio i nostri interessi, sostenevano; alcuni di noi (Patuelli, Sella, Azzi, Ghisolfi ed altri) avrebbero preferito un rinnovo per Faissola, molto vicino a Bazoli, discutemmo molto per difendere la nostra scelta, subimmo pressioni molto forti, eravamo convinti – e gli anni successivi ci avrebbero dato piena ragione – di essere nel giusto ma ci rendevamo conto che avremmo spaccato l’ABI, con all’orizzonte anni molto difficili. Eravamo a un punto morto, muro contro muro. Antonio Patuelli si inventò allora un meccanismo statutario – che fu immediatamente approvato da tutti nella sua interezza – che avrebbe sì consentito al candidato dei grandi gruppi di diventare Presidente, ma allo stesso tempo otteneva per le medie e piccole banche tutele e riconoscimenti statutari impensabili fino a quel momento. I giornalisti lo chiamarono “Lodo Patuelli”. Arriviamo così al gennaio 2013, Presidente dell’ABI è Mussari, io sono Vice Presidente Vicario; nei mesi a cavallo del fine anno Mussari è ripetutamente attaccato da sempre più numerosi media per le sue attività in anni precedenti, alla Presidenza del Monte dei Paschi di Siena; lunedì 21 gennaio vi fu un pesantissimo attacco di un quotidiano importante, ci sentimmo al telefono ed io gli dissi che era venuto il momento di difendersi con decisione o valutare altre iniziative visto che il suo importante ruolo avrebbe potuto produrre danni gravi di reputazione a tutta l’ABI e quindi alle banche italiane; mi assicurò che ci avrebbe pensato nella notte, il mattino dopo mi telefonò dicendomi che entro la serata mi avrebbe fatto avere le sue dimissioni. La lettera mi arrivò alle 20 dello stesso giorno, martedì 22 gennaio. Era una situazione di grandissima criticità, tutti i media con i fari puntati su di noi, possibilità di duri attacchi da molti fronti istituzionali, reputazione dell’ABI ai minimi, rischio di restare bloccati per lunghe settimane in trattative estenuanti; era necessario agire con grande velocità, cercando di dimostrare forza, determinazione e totale coesione. Questi erano i pensieri impetuosi che affollavano la mia testa in quella strana serata in cui il mio programma sarebbe stato di vedere una partita della Juventus. Pragmatismo, razionalità e velocità furono i principi che mi guidarono in quei giorni. Partii da una forte convinzione: l’unica persona che aveva serie possibilità di toglierci da quella complicata situazione era Antonio Patuelli; oltre alle sue caratteristiche personali di grande intelligenza e cultura, la sua ampia visione e la sua sensibilità politico strategica, le sue eccellenti conoscenze ad alti livelli istituzionali e l’approfondita conoscenza della macchina dell’ABI erano le ragioni per cui decisi di telefonargli. Erano le 20.15 di quella sera, dovevo assolutamente avere la sua disponibilità.
Fu una lunga telefonata molto bella, tra due amici che per le circostanze della vita e della professione avevano la responsabilità di risolvere in pochissimo tempo una situazione estremamente difficile per le banche italiane, che se si fosse avvitata avrebbe potuto avere anche qualche negativo riflesso internazionale, il tutto sotto i riflettori dell’opinione pubblica. Patuelli, dopo aver tentato di convincermi ad assumere io la Presidenza dell’ABI, mi dette la sua disponibilità. Verso le 21 iniziai a contattare i vertici delle principali banche italiane, trovando persone, amici preoccupati, ma anche determinati a contribuire a una scelta che desse un forte segnale di cambiamento e che ci aiutasse a risalire in termini di immagine e reputazione. Verso mezzanotte avevo finito le telefonate, ero ancora preoccupato, ma mi sembrava che la strada tracciata con Patuelli si potesse percorrere. Il mattino dopo ci furono altri numerosi contatti, anche con le persone con le quali avevo parlato nella notte precedente, ci furono alcune lunghe, intense telefonate, il consenso si stava coagulando forte sulla candidatura proposta; i vertici della Banca d’Italia, che tenevo costantemente informati, condivisero la mia volontà di fare in fretta, ma al tempo stesso mi raccomandarono prudenza e, soprattutto, coesione. Comunque, anche se avevo ricevuto le dimissioni solo la sera prima, decisi di convocare un Comitato di Presidenza dell’ABI, per il successivo lunedì, con all’ordine del giorno l’indicazione di un nuovo Presidente. Il giorno dopo, giovedì 24 gennaio, a Torino, in occasione della messa per il decennale dalla morte dell’avvocato Gianni Agnelli, incontrai alcuni esponenti di grandi banche e gli ulteriori colloqui mi confortarono. Nel pomeriggio arrivai a Roma, i giornali iniziavano a scavare a fondo nel passato di Patuelli, in quel momento ufficialmente solo uno dei candidati; naturalmente, pur con grande impegno soprattutto da parte di alcuni, non trovarono nulla di negativo. La domenica, casualmente, Antonio Patuelli con sua moglie a Ravenna ed io con la mia a Torino, andammo a vedere il film Lincoln dal quale traemmo una ulteriore iniezione di forti principi morali: le cose si stavano indirizzando bene, ma cento problemi si sarebbero potuti materializzare in ogni momento. Il lunedì 28 gennaio arrivai a Roma alcune ore prima del Comitato di Presidenza; avevo deciso di invitare anche alcuni esponenti di importanti gruppi bancari che non ne facevano parte, perché l’importanza del momento lo richiedeva, ci furono discussioni appassionate e alla fine ci fu l’unanime, convinta decisione di candidare Antonio Patuelli a Presidente dell’ABI nel Comitato Esecutivo che convocai d’urgenza per il successivo giovedì 31 gennaio. Era fatta, Mussari aveva dato le dimissioni meno di sei giorni prima. Nella concitazione di quei momenti mi stavo dimenticando di telefonare a Patuelli a Ravenna, me lo ricordò il Presidente della Banca Nazionale del Lavoro Luigi Abete; parlai a Patuelli alla presenza di tutto il Comitato di Presidenza allargato e gli feci le congratulazioni. Mi ringraziò, insieme a tutti i colleghi, mi disse di essere onorato, determinato e al tempo stesso preoccupato e mi informò che in quel momento era a colloquio con il Responsabile del Nucleo Ispettivo della Banca d’Italia che quel pomeriggio avevano iniziato una ispezione in Cassa di Risparmio di Ravenna, banca da lui presieduta. A partire dal settembre del 2008, la data del fallimento del colosso bancario americano Lehman Brothers, si sono succedute lunghe crisi finanziarie ed economiche da cui in Italia stiamo appena ora, in questo 2017, iniziando a risollevarci con fatica. Fare banca è diventato sempre più difficile e non solo per le complessità del contesto economico, anche la diffusione delle nuove tecnologie e il connesso profondo mutamento nei comportamenti dei clienti insieme all’infinita e mai stabilizzata regolamentazione hanno prodotto cambiamenti inimmaginabili nei decenni precedenti. Dal punto di vista professionale non ho mai imparato tanto come nell’ultimo decennio. Grazie ai nostri fondamentali principi e a numerose giuste scelte strategiche, l’impresa della nostra famiglia, che sono certo è considerata anche da numerosi nostri collaboratori come presenza importante nella loro vita personale, continua a crescere facendo leva su solidi punti di forza. La famiglia, gli amici e i libri mi hanno accompagnato fin qui. Ripensando al passato, alla guida dell’impresa Banca del Piemonte e anche cercando di guardare avanti oltre l’orizzonte, mi viene in mente una frase di Steve Jobs, il fondatore di Apple, oggi la più grande impresa del mondo: “Il premio è il viaggio stesso”. Per me è stato ed è esattamente così.

Qual è la dimensione ideale per una banca?

La dimensione ideale per una banca non esiste. Come autorevolmente indicato da economisti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Centrale Europea: “la dimensione bancaria ottimale è estremamente incerta”; “in generale, i risultati ottenuti riguardo alle implicazioni delle dimensioni delle banche per la probabilità di fallimento delle stesse sono ambigui. Alcuni studi indicano una minore stabilità delle grandi banche, mentre altri rilevano che esse sono più stabili nel lungo periodo”, e ancora: “cosa interessante, durante la crisi e nel periodo immediatamente successivo, la dimensione della banca non è più stato un fattore determinante per il rischio di fallimento”. Ritengo anche particolarmente appropriate le conclusioni di una ricerca condotta di recente da economisti statunitensi: “Nel conseguire maggiore redditività piccoli cambiamenti nei fattori specifici alla singola banca e al mercato sono equivalenti a grandi cambiamenti in termini di dimensioni. Pertanto, le banche non hanno bisogno di crescere per avere successo: strategie aziendali e crescita economica locale non sono meno importanti della dimensione nel determinare la redditività della banca”. Questo è proprio quanto si è verificato in Italia, dove oggi ci sono banche forti – la più parte – e banche deboli sia fra le grandi che fra quelle di piccole e medie dimensioni. Peraltro, un geniale economista e grande uomo di stato, Luigi Einaudi, lo aveva già scritto nel 1930: “Grosse e piccole banche sono […] non valori incompatibili fra di loro, ma piuttosto complementari. Il mondo non è né dei grossi né dei piccoli esclusivamente, ma dei grossi, dei piccoli e dei medi nel tempo stesso”.

Spesso nei suoi interventi pubblici lei fa riferimento al criterio della proporzionalità. Cosa significa?

Il principio di proporzionalità regola la legislazione dell’Unione europea ed è illustrato nell’articolo 5 del trattato sull’Unione europea, si tratta di un principio molto importante della regolamentazione. Esso mira a inquadrare le azioni delle istituzioni entro certi limiti, quelli necessari per raggiungere gli obiettivi fissati dai trattati; è richiesto quindi che il contenuto e la forma dell’azione debbano essere in rapporto con la finalità perseguita. Nel mondo bancario il principio di proporzionalità è semplicemente spiegabile con un esempio: la stessa regola, giustamente applicata a tutte le banche, andrebbe declinata in modo diverso per una banca con 100.000 dipendenti e per una con 20 dipendenti, anche al fine di consentire parità delle condizioni concorrenziali. Il principio di proporzionalità è molto spesso citato dalle norme, tuttavia in alcuni casi, vista l’elevatissima numerosità delle regole e la presenza di diversi regolatori, esso sembra non essere concretamente applicato.