Come sanare la frattura tra Pd e giovani

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Il 14 marzo, durante il discorso di insediamento come nuovo Segretario nazionale, Enrico Letta cerca di porre l’attenzione sui giovani. Tra le tante questioni affrontate in quella mattinata, i ragazzi emergono come oggetto di riflessione, seppur non ancora troppo approfondita, sulla quale cominciare a condizionare l’azione di partito. Il voto ai sedicenni è una prima provocazione lanciata all’Assemblea nazionale, riunita online, che si trova costretta a interrogarsi non solo su questa proposta, ma su ciò che ne sta alla base. In Italia c’è un conflitto generazionale non detto e forse nemmeno apertamente riconosciuto dagli stessi giovani. Ma c’è. Per anni il processo di formazione dell’individuo è stato accompagnato dall’idea che ognuno ce l’avrebbe fatta da solo, che bastava impegnarsi per essere imprenditori di sé stessi e realizzarsi senza dover ringraziare nessuno. Non era vero. Più di una generazione è stata cresciuta nell’illusione che la competitività fosse l’allenamento con cui prepararsi alla gara della vita. La collettività, la costruzione di una visione solidaristica del futuro sono state viste come battaglie perdenti, frutto di una illusione del passato. Oggi, molti di quei giovani si rendono conto di non avere i mezzi per diventare adulti. Sono sospesi nel limbo di chi finisce gli studi ma, allo stesso tempo, non può dirsi autosufficiente perché non trova un lavoro stabile ed è costretto a vivere mantenuto della propria famiglia. Il voto ai sedicenni non è una risposta alla questione sociale giovanile, chiaramente, ma può essere un segnale per attivare un dibattito in un mondo troppo distante da questi temi, che non riesce a rappresentarne le tensioni.
Il partito dei giovani

A tale proposito l’ex primo ministro dice di voler impostare un “partito dei giovani”, che non parli di loro, o soltanto con loro, ma che lasci loro la parola. Coinvolgendoli si potrà “dire di avere vinto”, sostiene con determinazione. Probabilmente è in questa direzione che bisogna leggere la riunione che è stata recentemente organizzata con i rappresentanti delle Sardine, specie se si ritiene che, nell’energia collettiva che l’idea di “partito aperto” dovrebbe sviluppare, i giovani non possono non trovare una postazione di rilievo. Però ci si trova ancora lontani da una condizione utile per affrontare un dibattito serio. Le Sardine sono un gruppo di protesta poco organizzato e mancano ancora i luoghi adatti per elaborare le riflessioni in autonomia su un conflitto che tocca quasi tutti i settori economici e sociali.

Certamente non è un caso che il Segretario parli di spalancare gli accessi della pubblica amministrazione a chi ha competenze in settori nuovi, dalle scienze sociali alle tecnologie, con riferimento ai “millennials”. Loro più di altri sono gli avanguardisti di lavori moderni che possono far comodo alla macchina statale. Il problema, però, resta più profondo e non può essere affrontato con proposte come “l’erasmus obbligatorio” che, per quanto possa costituire un’esperienza umana più che valida, non sfiora nemmeno il cuore della questione.
L’Università democratica

C’è però un punto nel programma lettiano che sembra essere passato un po’ in sordina tra i commentatori: l’Università democratica. Traendo spunto dalla sua esperienza come docente, Letta sembra immaginare l’applicazione di un format studentesco alla politica, che può rivelarsi una idea tutt’altro che sbagliata. I meno giovani ricordano con piacere le scuole di partito, ma l’università degli studi è per definizione il luogo delle idee, dove si sperimentano visioni alternative della società presente e futura, consolidando una maggiore consapevolezza di sé stessi e del proprio ruolo. Un’istituzione del genere, calata nel contesto di un campo riformista ampio, che non si limiti al riconoscimento con un solo partito, può permettere il coinvolgimento di energie nuove in grado di affrontare, dall’interno, la frattura generazionale che si è creata. Una piattaforma, grazie alla quale prendere parte a un grande movimento di proposta, avrebbe anche l‘ambizione di scalfire il blocco degli astenuti. Non sono pochi, infatti, i ragazzi che rientrano in quel 27% di aventi diritto che, alle ultime elezioni nazionali, è rimasto a casa senza pensare di recarsi al seggio. Le loro forze sono risorse importanti per tutto il paese.
Dar voce ad una generazione

friday for futureLa realtà giovanile è più difficile di quella della fine degli anni ’60 e ’70. E’ vero che in quel periodo i grandi moti di cambiamento imponevano una mobilitazione generazionale. Ed è vero che le scosse di quei tempi sono state drammatiche sotto tanti punti di vista, compreso quello della violenza. Però c’erano i partiti. C’erano anche i movimenti. C’erano masse organizzate di individui, giovani, che volevano colmare le distanze con i loro padri, spingendo per il cambiamento. Erano venti internazionali che portavano con loro la potenza e l’importanza delle lotte globali. Oggi tutto questo non c’è. Forse solo il movimento ambientalista può richiamarsi a una qualche forma di agglomerato giovanile, internazionale, con l’intenzione di sovvertire l’andamento dei tempi, ma non è ancora detto che possa avere l’intensità tipica dei moti di reazione. Eppure si sente la necessità di dare spazio alla condizione giovanile, di analizzarla, di scoprire a fondo le sue criticità, le impotenze e i punti su cui intervenire. C’è un grido di insoddisfazione e frustrazione che rischia di rimanere inascoltato. Strozzato nella gola di una generazione, senza un corpo collettivo che possa dargli voce.                                                                        Di Federico Micari