Domenico Siniscalco

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Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore

Vice Presidente di Morgan Stanley Bank International Tre mondi, una passione

Quando ho iniziato a scrivere queste note, mi ha assalito un minimo senso del pudore, se non del ridicolo, non essendo io né Keynes, né Einaudi né Simon Warburg. Cercherò quindi di raccontare gli eventi professionali della mia vita in modo asciutto, evidenziando un percorso quasi lineare dall’università, al Governo della Repubblica a una grande banca di Wall Street. Si tratta, come si vedrà, di un unico lavoro condotto via via nel tempo da tre angoli diversi. Si tratta di diverse esperienze guidate da un’unica passione: quella per l’economia come scienza sociale. La passione per l’economia politica mi è nata nel 1975, mentre passavo un trimestre a Cambridge Massachusetts. Al MIT insegnavano grandi economisti del se- colo scorso, come Paul Samuelson, Robert Solow, Franco Modigliani; erano visiting professor dall’Italia Ezio Tarantelli e Paolo Sylos Labini; studiavano per il dottorato Mario Draghi, Francesco Giavazzi oltre a molti futuri talenti europei, come Olivier Blanchard. A Harvard, poco distante e sempre a Cambridge, frequentavo invece principalmente la business school, dove in classe si discutevano i “casi”. All’epoca avevo ventun anni, e sarebbe stato difficile non innamorarsi della materia, che all’epoca vi- veva un periodo di splendore. Dopo il liceo classico all’Alfieri di Torino, avevo iniziato Giurisprudenza, materia che studiavo senza interesse particolare. Rientrato dopo il trimestre americano, alla fine del primo anno di università a Torino, riorientai radicalmente il mio piano di studi verso l’economia politica, pur senza cambiare facoltà, e cominciai a frequentare il Laboratorio di Economia e Statistica Cognetti de Martiis e la Fondazione Luigi Einaudi a Palazzo d’Azeglio, dove si poteva studiare in un ambiente ideale e dove si tenevano i seminari di economia. Torino, negli anni Settanta, era una città industriale cresciuta impetuosamente sul piano economico e demografico intorno alla FIAT, al sindacato e al PCI, a La Stampa e alla casa editrice Einaudi; all’immigrazione dal Sud e alla Juventus. Verso la metà degli anni Settanta, però, la città era precipitata in una crisi profonda, con l’autunno caldo, la prima crisi petrolifera e il terrorismo. La politica cittadina gravitava intorno alla DC di sinistra e al PCI, che sperimentavano le prime forme di accordo per gestire la crisi. Al fianco di questi due poli esisteva un mondo laico, liberale e socialista in cui mi riconoscevo. C’erano gruppi di sinistra extraparlamentare. Frange terroristiche uccidevano e colpivano giornalisti, avvocati e manager. L’economia italiana allora era caratterizzata da disoccupazione e inflazione molto elevate. La società, la cultura e le scienze sociali erano sistemi ad altissima intensità ideologica. Il laboratorio Cognetti de Martiis dell’Università di Torino, in quegli anni, era un dipartimento ante litteram, poiché riuniva gli economisti di molte facoltà di Palazzo Nuovo, tra cui Giurisprudenza, Scienze Politiche, Filosofia. Vi insegnavano, tra gli altri, Siro Lombardini, Francesco Forte, Claudio Napoleoni, Franco Momigliano, Terenzio Cozzi, Bruno Contini, Enrico Filippi, Gianni Zandano, Giorgio La Malfa. Quell’ambiente, composito e intellettualmente vibrante, proponeva un modo originale di fare economia. I discendenti accademici di Cognetti e di Luigi Einaudi, infatti, costituivano e rappresentavano una ponte tra tre sfere normalmente distinte: ricerca economica, attività di governo del Paese, esperienze di impresa e di banca nel settore privato. La combinazione di queste sfere, spesso troppo distinte, rappresentava la tradizione italiana dell’economia politica calata nella pratica. Quei professori portavano nelle loro lezioni quanto vedevano a Roma e nelle grandi aziende e banche del paese, e immagino viceversa. E quel modo di fare economia ha costituito per me, negli studi e nel lavoro, un imprint indelebile, che ha indirizzato tutto quel che ho fatto negli anni successivi e sino ad oggi. Nelle pagine che seguono racconterò per sommi capi le mie esperienze dividendole in ricerca accademica, attività di governo e attività in una grande banca internazionale. Come scrivevo in apertura, si tratta dello stesso lavoro condotto da tre angoli diversi. La tripartizione di questo scritto, peraltro è un semplice criterio espositivo, ma non rappresenta certo tre silos separati o separabili, perché ho anzi sempre ricercato una combinazione tra queste sfere.

La ricerca e l’insegnamento

La mia attività accademica inizia con la tesi di laurea nel 1978: un’analisi dell’integrazione tra industria e servizi, condotta sotto la guida di Franco Momigliano, top manager all’Olivetti e grande economista industriale, aveva ipotizzato che la crescita dei servizi nelle economie avanzate fosse dovuta in parte preponderante alla riorganizzazione del sistema produttivo, e non a mutamenti nei consumi, come ipotizzato invece dalla letteratura allora predominante. Utilizzando le tavole input-output di Leontief, con la tesi avevo trovato un modo per misurare i servizi destinati al sistema produttivo e al settore industriale, contrapposti ai servizi direttamente destinati al consumo, corroborando con i dati quella ipotesi. Dalla tesi scaturì una serie di articoli pubblicati su “Moneta e Credito” in italiano e in inglese. Il primo di quegli articoli, scritto con Momigliano (Note in Tema di terziarizzazione e deindustrializzazione, “Moneta e credito”, giugno 1982), vinse il premio St, Vincent per il migliore articolo italiano di economia. Sempre grazie alla tesi, ancora nel 1978 vinsi una borsa di studio Luciano Jona, istituita proprio quell’anno dall’Istituto bancario San Paolo per studiare all’estero, e ottenni, in parallelo un posto da assistente presso la cattedra di Scienza delle Finanze, tenuta all’epoca da Franco Reviglio nella Facoltà di Economia e Commercio. La Facoltà di Economia di Torino, all’epoca, era una enclave liberale in una città di sinistra. Si trovava in Piazza Arbarello, separata dalle altre facoltà umanistiche. Vi insegnavano Sergio Ricossa, Onorato Castellino, Franco Reviglio, Mario Monti, Mario Deaglio e Giorgio Rota. Le discipline aziendali e manageriali erano le più importanti in facoltà e il mio inserimento non fu semplicissimo, anche perché all’indomani della laurea mi trovai a fare lezione su temi di cui non ero esperto, e che dovevo spesso studiare di volta in volta. Imbarazzante talvolta, fare gli esami. Poi, nell’estate del 1978, Franco Reviglio diventò Ministro delle Finanze e mi chiese di seguirlo a Roma, dividendomi tra l’insegnamento a Torino e il Ministero. Con un primo grande spartiacque nella mia vita, lavorai così al Ministero delle Finanze con Reviglio per oltre un anno, fino a quando, nell’autunno del 1979 la borsa di studio e l’ammissione all’Università di Cambridge mi portarono a una seconda svolta all’epoca per me fondamentale: il dottorato di ricerca (Ph.D.) in Inghilterra, a Cambridge, dove era in corso una vera rivoluzione teorica. L’ortodossia keynesiana, ancora molto vitale grazie agli allievi di Keynes, come Nicholar Kaldor, Dick Kahn, Joan Robinson e Richard Stone, seguiti dai più giovani come John Eatwell e Geoff Harcourt. L’ambiente intellettuale era molto vitale e in aperto dissenso con i primi passi del Governo di Margaret Thatcher, appena eletta. In opposizione ai keynesiani, si assisteva a una ripresa, prima timida e poi via via più vigorosa, del pensiero neoclassico, guidata da Franck Hahn, Partha Dasgupta e Oliver Hart seguiti da un piccolo ma vivace gruppo di studenti. Scintille vere e una eccezionale palestra intellettuale, nella quale, oltre a Keynes, potei studiare l’equilibrio economico generale, la teoria dei giochi e dei contratti, l’economia dell’informazione grazie a Joe Stiglitz che era a Cambridge come visiting professor per un anno. Interessante, in quell’ambiente, era il dibattito su temi applicati, tra cui le cause della lenta crescita dell’economia inglese (prima della Thatcher davvero lentissima). E cicli di seminari interdisciplinari come quello sulla fiducia come commodity, animato da Franck Hahn e un giovanissimo Diego Gambetta. Ma soprattutto interessantissimo fu vivere sul lato accademico l’avvio del grande ciclo politico liberale, spinto da Thatcher e Reagan, e il dibattito economico e politico che ne scaturiva. Sul piano teorico non mancavano, anche tra i neoclassici, i distinguo sulle virtù e i fallimenti del mercato in un mondo subottimale. Ma il successo del pensiero liberale sul piano pratico, economico e politico contribuì a una rapida vittoria del pensiero neoclassico e alla ritirata del pensiero keynesiano, quasi una disfatta fino alla crisi del 2007. Di quel periodo ricordo un aneddoto: nella primavera del 1980 venni a Torino, alla Fondazione Einaudi, e tenni due seminari sulla ripresa dell’economia neoclassica, che in Italia era appena ai primi albori. Alla fine i partecipanti mi chiesero: “Ma sei andato a Cambridge a studiare queste sciocchezze?” Non vedendo che quelle idee, che mi limitavo a riportare, avrebbero dominato il pensiero economico per i successivi trentacinque anni. A Cambridge imparai a fare ricerca. Finito il dottorato, nella prima metà degli anni Ottanta, dopo un’esperienza, mi trovai a dirigere per dodici anni la Fondazione Enrico Mattei che era stata costituita dall’Eni nel 1986 ancora grazie a Franco Reviglio, che dell’Eni era Presidente. Alla Fondazione Mattei, con Carlo Carraro appena rientrato da Princeton a Venezia, costituimmo la principale rete di ricerca europea in economia dell’ambiente, a cui partecipavano le migliori università del mondo e molti economisti e scienziati sociali delle giovani generazioni, tra cui Jean Jaques Laffont e Jean Tirole, Robert Gordon e Jim Poterba, Ghassan Salamé, Marcello Colitti e Giacomo Luciani. Affrontammo temi nuovi e rilevanti in modo rigoroso dal punto di vista della ricerca. Tra gli argomenti principali, negli anni Ottanta e Novanta, i cambiamenti climatici, le migrazioni, le questioni della democrazia nei paesi arabi, la costruzione del consenso sui territori difficili, la democrazia nell’età di internet e successivamente le privatizzazioni. Tentammo con successo l’integrazione tra sfera della ricerca, del governo e delle esperienze di impresa, secondo l’imprint che avevo acquisito negli anni Settanta a Torino e raffinato in seguito. I ricercatori della Fondazione parteciparono infatti alla Conferenza di Rio de Janeiro sull’Ambiente nel 1992 e alla conferenza di Kyoto sui cambiamenti climatici nel 1997, ai primi lavori sulle politiche ambientali cinesi nel quadro dell’agenda XXI, alle privatizzazioni saudite e alle politiche ambientali in Europa e in Italia. Tra le attività notevoli di quel periodo, su impulso di Ermete Realacci, una serie di seminari “del sabato”, dove partecipavano regolarmente ricercatori come Giulio Sa- pelli, banchieri come Alessandro Profumo, imprenditori e manager, politici attuali e futuri, da Ermete Realacci e Giorgio Gori, a Paolo Gentiloni e Giovanna Melandri. Tra i successi la partecipazione di tre di noi come lead authors al Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC), vincitore del premio Nobel del 2007. I tre ricercatori erano Carlo Carraro, Alessandro Lanza ed io stesso. Al di là della soddisfazione personale, nessuna istituzione ebbe tre ricercatori tra i lead authors premiati. È interessante notare che mentre la ricerca accademica mondiale si andava specializzando oltre misura, rischiando l’irrilevanza pratica della ricerca, la Fondazione teneva la barra diritta su un approccio multidisciplinare e non dogmatico. E che soltanto dopo l’inizio della grande crisi nel 2007, la ricerca mondiale sta prendendo la stessa strada multi-disciplinare nei programmi di ricerca europei e nei joint degrees delle grandi università degli Stati Uniti. Quell’esperienza fu possibile perché la Fondazione non era un dipartimento universitario e si muoveva pertanto senza troppi steccati disciplinari e necessità di specializzazione. Dal 1978 al 2006, peraltro, avevo seguito con costanza una carriera accademica “ortodossa”: Ph.D. in economia a Cambridge, Ricercatore a Torino in Scienza delle Finanze. Professore Associato di Econometria a Cagliari. Professore Ordinario di Economia Politica a Torino dal 1990. In tutti quegli anni, fortunatamente, ho insegnato anche altrove: Supervisor di statistica a Cambridge. Ricercatore a Sophia Antipolis in Francia. Professore a contratto di economia industriale alla Luiss di Roma invitato da Guido Carli. Professore a contratto di Scienza delle Finanze alla Università Cattolica di Lovanio in Belgio e poi all’Università Johns Hopkins, americana. Sono stato membro dell’Accademia delle Scienze di Stoccolma. Ho curato e scritto alcuni libri e soprattutto articoli scientifici, in tema di accordi internazionali sul clima (C. Carraro e D. Siniscalco, Strategies for the international protection of the environment, “Journal of Public Economics”, 1993) e privatizzazioni (B. Bortolotti e D. Siniscalco, The Challenges of Privatisations, Oxford University Press, 2001). Piccola diversione: l’attività pubblicistica al “Sole- 24Ore” e poi alla “Stampa”. Dal 2006 sono in congedo dall’università, ma sono nel board di una importante business school a Parigi (l’HEC) e nel Global Council della New York University. Per quanto riguarda le istituzioni culturali, sono stato nel Consiglio delle Fondazioni Cini e Querini Stampalia a Venezia, lo sono oggi nuovamente alla Fondazione Mattei a Milano e del Museo Egizio a Torino. Sono stato per qualche anno Presidente del Collegio Carlo Alberto a Torino, sempre cercando l’integrazione tra culture diverse nella convinzione che da queste culture scaturisse un pensiero più utile e fruttuoso.

Il Governo e la politica economica

Grazie all’accademia torinese e ai suoi molteplici rapporti con le istituzioni, a più riprese ho avuto a che fare con il Governo e la politica economica, sino a diventa- re Direttore Generale del Tesoro nel 2001 e Ministro dell’Economia e delle Finanze nel 2004 e 2005. La prima esperienza di politica economica è del 1975, quando ero ancora studente, e fui invitato a lavorare con Enrico Filippi, Pippo Ranci e Paolo Gnes nella redazione della prima Relazione sullo Stato dell’Industria, prevista dalla legge 675 del 1975.
Ma la vera immersione nel mondo del Governo avvenne nell’estate 1978, subito dopo la laurea, quando Franco Reviglio diventò Ministro delle Finanze nel Governo Cossiga. Esperienza unica, vissuta con i giovani Giulio Tremonti e Alberto Meomartini con cui condividevo anche un appartamento a Roma. Mentre tenevo, al posto di Reviglio, il corso di Scienza delle Finanze all’Università di Torino, lavoravo a Roma alla Legge Finanziaria, al completamento della riforma tributaria. Tutto questo consentiva di osservare la politica nazionale e la politica economica da una prospettiva unica e forse lievemente incosciente, portando all’università a Torino, ogni settimana, quanto vedevo a Roma. Scrissi anche dispense per gli studenti sul sistema tributario e sulla politica economica.
Nel settembre del 1979 partii per il dottorato a Cambridge. Ma l’anno al Ministero delle Finanze, ove conobbi Antonio Pedone, Luigi Spaventa, Franco Gallo, Vincenzo Visco e ovviamente Giulio Tremonti, costituì un imprint fondamentale, di cui non sarò mai abbastanza grato. Durante il dottorato in Inghilterra sospesi ovviamente i contatti con Roma, fino al 1989, quando diventai Consigliere economico del Ministro dell’Ambiente Giorgio Ruffolo, e partecipai alla conferenza internazionale di Rio de Janeiro sull’ambiente e ai primi incontri con la repubblica Cinese a Pechino, in tema di cambiamenti climatici, come già ricordato.
Nel 1992, partecipai con un ampio gruppo di persone alla stesura del programma di Governo di Giuliano Amato e lo raggiunsi a Roma quando diventò capo del Governo. Più che un imprint questo fu uno shock: la crisi finanziaria incalzava e provocò l’avvio delle privatizzazioni nel luglio del 1992, un assaggio di manovra da 30mila miliardi di lire durante l’estate, una svalutazione della lira in settembre e una Legge Finanziaria monstre da 90mila miliardi entro fine anno. Di quel periodo ricordo vividamente il ruolo dei grandi civil servant dell’epoca, Andrea Monorchio e Mario Draghi. Di Francesco Giavazzi alle privatizzazioni, di Franco Reviglio al Ministero del Bilancio e poi alle Finanze, di Piero Barucci al Tesoro (sarò Consigliere economico prima dell’uno e poi dell’altro). E poi Tangentopoli, la scomparsa di una intera classe politica spazzata dagli scandali e poi l’arrivo del governo Ciampi nel 1993, e l’avvento di Silvio Berlusconi nel 1994. Nel 1997 a Riyadh grazie alla Fondazione Mattei che dirigevo, mi trovai a lavorare con il Governo saudita sulle privatizzazioni. E un ultimo incarico a Palazzo Chigi come Consigliere del Governo prima sulla politica economica e poi sull’innovazione. Infine tra il 2001 e il 2005, l’esperienza più profonda. Prima, da Direttore Generale del Tesoro, chiamato dal Governo Berlusconi (su proposta di Tremonti Ministro), come successore di Mario Draghi; poi, a cinquant’anni, come Ministro dell’Economia e delle Finanze, successore dello stesso Tremonti, dimessosi dal Ministero in conseguenza di una crisi politica. Il mestiere di Ministro dell’Economia diverso da quello di Direttore Generale del Tesoro per le responsabilità e il grado di esposizione politica che comporta, ma le due esperienze sono state, nel mio caso, in totale continuità.
Essere Ministro tecnico in un Governo politico non è semplice, ma sul piano politico ricordo i buoni rapporti intrattenuti con tutti i leader dell’epoca, persino nell’opposizione, e il ruolo di supporto quasi paterno del Presidente Ciampi. Mentre, sul piano economico, ricordo eventi unici e risultati che considero non banali. Tra gli eventi: la tragedia e lo shock dell’11 settembre; il primo G7 a Washington all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle; il fallimento della Enron; il fallimento della Parmalat; la crisi del Patto di Stabilità nel 2004. Tra i risultati: la discesa del rapporto debito-PIL fino al 100 per cento, ottenuta con anni di lavoro fruttuoso con Giulio Tremonti e spesso dimenticata; la trasformazione in SpA della Cassa Depositi e Prestiti nel 2003; un importante taglio delle tasse nel 2004; la riforma del patto di Stabilità e Crescita in Europa, sempre nel 2004-5, con l’introduzione di importanti elementi di flessibilità in funzione del ciclo; la riforma della Banca d’Italia nella Legge sul Risparmio. I ricordi di quel periodo sono innumerevoli e per motivi di spazio posso solo citarne alcuni. Alan Greenspan, Presidente della FED, che in uno dei primi G7 mi dice di non temere troppo per il debito pubblico italiano: “È così grande da badare a sé stesso”. L’arroganza intellettuale di Larry Summers che spiegava sempre ai colleghi Ministri cosa fare. La qualità dell’amministrazione britannica, con Tony Blair Premier, Gordon Brown Cancelliere e Mervyn King Governatore della Banca d’Inghilterra; la forza di Nicolas Sarkozy Ministro delle Finanze con Chirac Presidente, capaci di sfidare l’Europa e salvare Alstom a dispetto di ogni regola sugli aiuti di stato; Gehrard Schroeder e il ministro Hans Eichel, capaci di schiantare il Patto di Stabilità e Crescita, imposto qualche anno prima dalla stessa Germania, quando urta l’interesse tedesco. Temi capaci di mettere in prospettiva (e probabilmente nel ridicolo) i dibattiti nostrani sulle regole e l’Europa. Indimenticabile, infine, la morte, la camera ardente in San Pietro, e i funerali di Giovanni Paolo II.
Continuo a pensare alle lezioni apprese:
• governare un paese G7 è davvero complicato;
• il problema delle riforme economiche non è “che fare”, ma come farlo;
• la politica, la politica economica possono fare poco per spingere la crescita, ma possono certamente bloccarla;
• gli stati vanno in crisi spesso (anche se non sempre) per cattive politiche e incapacità di comprendere i grandi fenomeni storici ed economici.
Su tutte queste cose, e soprattutto su come “disincagliare” l’economia italiana e dell’Europa bisognerebbe scrivere un libro, ma non è mai il momento giusto per queste cose. È stato invece possibile riportare quanto appreso in università e in Fondazione riuscendo, in alcuni casi a trasmettere ad alcuni la passione per l’economia politica, come i miei maestri erano riusciti a fare con me. Insisto sull’“economia politica” come contrapposta alla scienza economica nella convinzione che la specializzazione e il formalismo, tanto dominanti, siano poco fruttuosi per comprendere quanto accade e ancor meno per agire. Ma anche qui il discorso si farebbe troppo
lungo. Conclusa l’esperienza romana, alla fine del 2005, sono rientrato in Piemonte e ho ripreso la cattedra di Economia politica alla Facoltà di Economia all’Università di Torino. Avevo trovato il lavoro nelle istituzioni entusiasmante, pur senza contrarre nessuna speciale passione per la politica. Nello stesso periodo sono stato Presidente del Collegio Carlo Alberto a Moncalieri, cercando di portare a Torino gli economisti e i commentatori più interessanti che avevo incontrato nel mondo negli anni precedenti: Niall Ferguson da Harvard; Daron Achemoglu dal MIT; Wolfgang Munchau del “Financial Times”; molti studiosi più giovani. È stato un periodo intenso e appassionante, evidentemente troppo per un certo piccolo mondo torinese che era andato prevalendo in città nel decennio precedente. E così, alla scadenza del mandato, l’esperienza si è interrotta e il Carlo Alberto è tornato nella tranquilla normalità.

La banca globale

Dall’inizio del 2006, finita l’esperienza romana, tre banche di Wall Street sono entrate in contatto con me, per esplorare ipotesi di collaborazione. Dopo qualche mese di colloqui e riflessioni ho scelto Morgan Stanley dove sono entrato come Vice Chairman. Un anno dopo sono diventato Country Head per l’Italia e in seguito responsabile del coverage dei Governi dell’Europa, del Medio Oriente e dell’Africa (EMEA). Mi sono trasferito a Londra, portando con me la famiglia. All’inizio, prevedevo che un cambio di cultura tanto profondo non sarebbe stato semplice. Al contrario l’integrazione nella banca fu ideale e soprattutto, fu per me l’occasione di entrare in un mondo molto diverso e imparare molte cose nuove. Le grandi banche di Wall Street, infatti, sono il crocevia dei capitali globali e che spostano dai soggetti e dai paesi in surplus a chi ne ha necessità. Il capitale, a sua volta, è essenziale per creare nuovo business nei settori più innovativi: dall’auto elettrica e a guida autonoma, ai farmaceutici; dai nuovi media ai settori tradizionali ma promettenti. L’investment banking, l’attività di capital market, il trading e l’asset management sono attività complemen- tari che rappresentano il cuore di Wall Street. Un distretto omogeneo e difficilmente trapiantabile, come dimostrano molti tentativi sinora sfortunati di replica in Europa e in Asia. Appena un anno dopo l’inizio della mia esperienza bancaria, nel 2007 è arrivata la grande recessione, che ha sconvolto nel profondo l’economia mondiale e l’industria finanziaria.
Le cause della crisi venivano da lontano: dagli squilibri globali cresciuti dall’inizio degli anni 2000; dalla globalizzazione e deregolamentazione del settore finanziario promossa da Clinton e Greenspan alla fine degli anni ’90; da una eccessiva propensione al rischio delle banche. La scintilla che ha fatto scoppiare la crisi è stata la crisi dei mutui subprime, che ha contagiato l’intero settore bancario nell’agosto del 2007. Il fallimento di Northern Rock in Gran Bretagna e quello di Lehman Brothers a Wall Street segnano l’aggravarsi della crisi e innescato un intervento senza precedenti dei Governi e soprattutto delle Banche Centrali. A quel punto, la mia esperienza ancora fresca nel Governo, nell’Eurogruppo e nel Consiglio Ecofin in Europa e nel G7, G8 e G20 a livello globale, mi hanno portato di colpo nel cuore dei problemi diventando più importante per la mia banca, sia perché conoscevo bene i regolatori sia perché avevo una visione macroeconomica e finanziaria, preziosissima in quel momento. Grazie alle lezioni apprese nella grande crisi del 1929, le politiche “non convenzionali” delle Banche Centrali e i salvataggi bancari ad opera dei Governi hanno evitato che la grande recessione iniziata nel 2007 si trasformasse in una grande depressione come quella del 1929. Merito di Trichet, Bernake e Mario Draghi.

Wall Street e le banche nel frattempo sono cambiate nel profondo.
Maggiori requisiti di capitale, maggiori livelli di liquidità, limiti ai compensi legati al rischio (specie in Europa), una regolazione molto più attenta e stringente hanno risolto fortemente i rischi sistemici. E soprattutto un cambio profondo nella cultura e nella governance delle decisioni hanno messo in maggiore sicurezza il sistema. In Morgan Stanley, l’acquisizione di un grande ramo di wealth management ha diversificato il rischio e ulteriormente stabilizzato la banca e il suo cash flow. La soluzione della crisi, la ricapitalizzazione delle banche, La ri-regolamentazione del settore bancario e finanziario hanno preso anni ma il mondo pare uscito definitivamente dalla crisi, seppure con livelli di debito ancora elevatissimi. Gli Stati Uniti sono usciti dalla crisi meglio e prima del resto del mondo, grazie alla forza della propria economia e grazie alla risposta delle autorità fiscali e monetarie. L’Europa è arrivata in ritardo e sta cercando, sol- tanto dopo il referendum sulla Brexit, di sviluppare un proprio mercato dei capitali e istituzioni bancarie pan europee. Si prova in questo modo a risolvere un’anomalia: una zona valutaria fortissima, la zona euro, che opera su piattaforme finanziarie al di fuori della zona stessa. Per farlo sarà innanzitutto essenziale superare la frammentazione in campo legale e regolamentare. In Italia, la crisi bancaria è stata riconosciuta e affrontata in grave ritardo, soltanto dopo l’adozione della disciplina sul bailin, che impedisce salvataggi bancari da parte del settore pubblico prima che Azionisti, obbligazionisti e persino depositanti paghino per il salvataggio. Si pensava, con il bailin, di interrompere il circuito perverso tra debiti sovrani e banche. Ma aumentare la solvibilità dei tesori e delle banche ha messo in crisi le famiglie, e ha portato a una parziale disapplicazione della normativa, che ignorava importanti aspetti della realtà del risparmio. Dopo anni di estenuanti discussioni con Francoforte e Bruxelles, finalmente le istituzioni in crisi sono state salvate, con un susseguirsi finalmente rapido di grandi operazioni di mercato (come per Unicredito), con ricapitalizzazioni precauzionali secondo la normativa europea (come per MPS), con resolution e normativa na- zionale (come nel caso delle banche venete) o con ope- razioni di M&A (Banca Etruria, Banca Marche, Cassa di Risparmio di Chieti). Il tail risk, in questo modo, sembra finalmente essere stato eliminato ed il sistema bancario sta riprendendo a prestare all’economia reale. Il sistema economico italiano, per motivi strutturali legati alle piccole dimensioni delle imprese, dipende in modo preponderante dal credito bancario. Se le banche non prestano, l’economia si blocca. La relazione tra banche e imprese è dunque idiosincratica e spiega una buona parte della mancata crescita italiana. Il segmento dell’industria finanziaria che funziona meglio e continua a crescere è quello del risparmio gestito. Una riforma fiscale che ha rimosso fattori di freno e la creazione dei Piani Individuali di Risparmio (PIR), entrambi ottenuti quando ero Presidente di Assogestioni, hanno dato impulso notevole al risparmio gestito. Importanti operatori esteri e investimenti diretti stanno arrivando in Italia. Con un enorme risparmio privato, occorre aiutare gli italiani a risparmiare meglio, con attenzione agli aspetti previdenziali e al lungo periodo. Per lo sviluppo dell’economia, occorre soprattutto aprire nuovi canali (come i PIR) che connettano il risparmio all’investimento.

Conclusioni

Ho iniziato con riluttanza a scrivere questo resoconto delle mie esperienze di lavoro e probabilmente mi sono troppo dilungato. Come era inevitabile, ho offerto un resoconto del tutto personale. Se mi domando quale dei diversi lavori mi è piaciuto maggiormente, non posso dare una risposta: si è trattato di una combinazione convessa di tante esperienze e nessuna di esse avrebbe avuto valore senza le altre. Se avessi seguito una sola di queste carriere probabilmente avrei fatto di meglio. Ma la passione, la curiosità e la voglia di vivere hanno avuto la meglio. Mi rendo conto, infine, che nel raccontare questi eventi ho omesso gli ingredienti principali della ricetta: la mia famiglia di provenienza, con i valori di impegno e passione civile che mi sono stati trasmessi dai miei genitori. E la mia famiglia attuale, che mi dà equilibrio e buon senso in quello che faccio ogni giorno, aiutandomi a contestualizzarne gli alti e i bassi che capitano ogni giorno. Ma questi elementi sono appunto personali e dunque di scarso interesse per chi legge. Per questo mi fermo qui e ringrazio chi mi ha invitato a scrivere queste note.