«Ecco come l’aborto è sempre più invisibile»

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La denuncia di monsignor Camisasca sulla Ru486: «Ecco come l’aborto è sempre più invisibile»
La Chiesa non sta a guardare, mentre si cerca in tutti i modi, in questo tempo di emergenza sanitaria, dove la morte già la fa da padrona, di sopprimere anche quei germogli di vita che chiedono solo di fiorire: potenziali, futuri cittadini, seppure ancora nel grembo materno, di cui lo stato sembra più interessato a sbarazzarsi che a tutelare. Questo lo spirito che emerge dalle linee guida sulla RU486 emanate dal ministro Speranza, contro cui il vescovo di Reggio Emilia- Guastalla, monsignor Massimo Camisasca, non ha esitato, già la scorsa estate, ad alzare forte la voce. Un provvedimento che prevede l’uso della pillola abortiva RU486 nei consultori familiari, in regime ambulatoriale, non in ricovero, ma in day hospital. “Esprimo la mia tristezza e la mia totale contrarietà” ­- aveva dichiarato il prelato lo scorso agosto, in un’intervista rilasciata ad un giornale locale – “invece di scegliere la strada dell’aiuto alla maternità, in una situazione di declino demografico che sta mettendo una seria ipoteca sul futuro del nostro Paese, si nasconde ipocritamente l’origine vera di questa decisione: gravare meno sulle strutture ospedaliere, anche a costo di pesanti conseguenze che il Consiglio superiore della sanità nelle sue Linee guida del 2010 aveva riconosciuto come rischiose per la salute della donna”.

Per questo abbiamo voluto riprendere proprio con lui il filo di un discorso così importante, anche alla luce delle ultime due campagne mediatiche, di Pro Vita & Famiglia, sull’argomento, che tanto hanno fatto discutere, fino a suscitare vere e proprie azioni mirate di oscuramento e censura dei nostri manifesti, che evidentemente sono riusciti a scuotere, con un chiaro richiamo alla verità dei fatti, tante coscienze intorpidite.

Eccellenza, le nuove linee guida del ministro Speranza non mostrano forse un accanimento ideologico contro le figure più fragili nel mondo dell’aborto volontario: la madre e l’embrione?

«Nella nostra società c’è una volontà sotterranea di banalizzare sempre di più l’incontro sessuale tra l’uomo e la donna, come se fosse un incontro paragonabile a qualunque altra forma di incontro, mentre esso è (o dovrebbe essere) gravido di implicazioni affettive, psicologiche e anche di apertura alla vita. Questa banalizzazione della sessualità ha portato, purtroppo, alla banalizzazione di quella che è oramai chiamata “interruzione di gravidanza” e che, in realtà, è l’aborto, presentato all’opinione pubblica come un diritto e non come un dramma. Un diritto che oggi si può addirittura esercitare come se fosse un qualunque intervento farmacologico. L’aborto fra un po’ non sarà nemmeno menzionato, perché saremo in presenza di aborti invisibili che, però, purtroppo, avranno delle conseguenze gravi sia per le mamme che per le famiglie e la società. Per le mamme, perché la donna viene lasciata sempre più sola di fronte alla decisione di rinunciare o meno al bambino nelle ore drammatiche e pesanti in cui devono agire i farmaci per fermare la gestazione e provocare l’espulsione dell’embrione. La donna sarà sola, a casa, con il proprio dolore e con le conseguenze mediche sulla sua salute. Mi ha reso molto triste leggere, mesi fa, frasi come “questi nuovi regolamenti sono una risposta gentile e moderna che spazza via ogni concezione medievale del ruolo delle donne.” I nostri governanti dovrebbero scegliere la strada dell’aiuto alla maternità, in un periodo in cui il nostro Paese vive una situazione di terribile declino demografico, che pone un interrogativo molto serio sul futuro della nostra nazione. Penso che queste nuove linee guida nascano dal desiderio di gravare sempre meno sulle strutture ospedaliere e quindi da una decisione che ha molto a che fare con il denaro e poco con la salute della donna, con l’attenzione alla sua persona e con la valorizzazione della sua femminilità».

E proprio quest’ultimo concetto Lei ha ribadito anche in una recente intervista, alludendo all’origine vera delle nuove linee guida sulla Ru486, di natura prettamente economica, anche a costo di pesanti conseguenze che il Consiglio superiore della sanità nelle sue linee guida del 2010 aveva riconosciuto come rischiose per la salute della donna. Eppure quella dell’aborto prima e della Ru 486 dopo, le si fa passare come conquiste “di libertà” per la donna stessa, su cui, come affermano spesso anche i collettivi femministi, “non si può tornare indietro”. Ma quanto è “a favore” della donna una visione simile della maternità e della vita nascente? Non si sta banalizzando l’esperienza dell’aborto, scrollandosi di dosso anche la sofferenza della donna che ora vive in completa solitudine, con queste ultime linee guida, in particolare?

«Con la frase “non si può tornare indietro”, ci si vuole riferire a una intangibilità della legge 194. La 194 dovrebbe essere applicata nel suo spirito originario. In essa vi erano delle aperture importanti riguardo la necessità che le donne venissero aiutate a prendere consapevolezza di ciò che stavano compiendo. Oggi, sempre di più, l’aborto viene presentato come una scelta inevitabile, anche solo in presenza di interrogativi sul nascituro. L’obiettivo sembra essere quello di rimuovere eventuali ostacoli ad una vita piana e pianificata. Gli atti e le loro conseguenze vengono banalizzati, deresponsabilizzati, svuotati».

Parliamo della penultima campagna di Pro Vita & Famiglia, in cui con un’immagine di impatto, si cercava di denunciare l’effetto devastante sia dal punto di vista psichico che fisico della pillola abortiva, presentandola come la mela avvelenata della favola di Biancaneve, ingerita da una donna riversa sul pavimento, senza nessuno accanto a soccorrerla. C’è chi ha alzato la voce contro questo manifesto, affisso in tutta Italia, definendolo “violento”. Ma non è forse l’esperienza stessa della pillola abortiva, di cui, oggi, la donna può fare esperienza tutta sola, a casa, assistendo persino al trauma dell’espulsione del frutto del suo grembo, ad essere violenta di per sé? Non c’è forse un atteggiamento un po’ ipocrita alla base di questo stracciarsi le vesti da parte di chi dissente da questo messaggio?

«Oggi non si dice più “aborto”, ma “interruzione di gravidanza”, non c’è più ospedalizzazione, ma un’esperienza devastante che si può fare a casa, come se il perpetrare entro le mura domestiche quest’atto gravissimo ne riducesse, o addirittura eliminasse, la gravità. È in atto una modificazione delle immagini. Tutto viene ricondotto ad una privatezza che, di fatto, lascia sola la donna di fronte alla responsabilità dei propri atti. Dobbiamo tornare a chiamare nuovamente le cose con il loro nome, evidenziando lo spessore delle responsabilità».

A Firenze, alcuni mesi fa, il consigliere d’opposizione Andrea Asciuti (Lega) è stato contestato per aver utilizzato, qualche tempo fa, un’espressione molto tranchant: «Con la Ru486 la donna diventa il “sarcofago” del proprio figlio prima di espellerlo e gettarlo chissà dove». E’ bastata questa secca affermazione a scatenare un vespaio di polemiche. Spesso, i tentativi di censurare il pensiero pro life, provengono proprio da quel mondo culturale e politico che dice di fare della difesa della libertà di scelta e della libertà, in generale, il senso e lo scopo delle proprie battaglie. Ma non si dice che la propria libertà finisce dove inizia quella di un altro? Allora perché questo principio non è valido, proprio per la vita nascente e per chi la difende?

«Io non sono d’accordo col principio secondo cui la nostra libertà finisce dove inizia quella di un altro: è un principio kantiano che nasce da una concezione privatistica della libertà che non ha fondamento nella responsabilità reciproca. Io parlerei, invece, di una responsabilità che abbiamo gli uni verso gli altri. Non entro nel merito dell’affermazione del consigliere leghista, che non conoscevo, e delle reazioni che ha suscitato, ma dico che dobbiamo aiutarci tutti quanti a riflettere profondamente sulla gravità delle nostre decisioni, sul peso che esse hanno anche sulla nostra vita futura. Dobbiamo aiutare le donne ad essere realmente custodite e sostenute nelle loro responsabilità più profonde».

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