Eco ideologo e cattivo maestro

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Cinque anni fa moriva Umberto Eco. Fu semiologo e sociologo brillante e romanziere di successo, critico acuto ma soprattutto fu un ideologo. Non un filosofo come oggi si dice, ma un ideologo. Nelle sue opere, Eco compì un’opera sistematica di demolizione della tradizione e dei buoni costumi, del senso religioso e del legame con la morale comune, contro la meritocrazia e “l’illusione della verità”. Auspicò una “guerriglia semiologica” (in quegli anni erano parole di piombo), negò rispetto al latino -“L’ossessione del latino è una manifestazione di pigrizia culturale, o forse di forsennata invidia: Voglio che anche i miei figli abbiano gli orizzonti ristretti che ho avuto io, altrimenti non potranno ubbidirmi quando comando”- attaccò i buoni sentimenti e la sua scia retorica, che promanavano dal libro Cuore, libro di formazione di più generazioni che servì a edificare un sentire comune dell’Italia postunitaria e che per Eco era invece “turpe esempio di pedagogia piccolo borghese, paternalistica e sadicamente umbertina”; elogiò Franti il cattivo e vide in lui il modello positivo dei contestatori, anzi di più, lo vide come ispiratore di Gaetano Bresci, l’anarchico che uccise all’alba del ‘900 Re Umberto a Monza. Capite che benzina Eco abbia gettato sul fuoco di quegli anni feroci. Del resto, in quegli anni Eco firmava il manifesto di Lotta Continua contro il Commissario Calabresi, che fu una sentenza di morte.

Il cattivo maestro Eco poi contestò il filosofo Abbagnano che elogiava la selezione e il merito, sostenendo che la selezione sia solo una legge di natura da correggere con la cultura e la solidarietà e auspica “che non ci sia più una società dove predomina la competitività”. Declassò la religione a fiaba e suggerì non di avversarla come facevano gli atei dichiarati ma più subdolamente di relativizzarla presentandola come fiaba tra le fiabe. Giudicò impossibile un Picasso che dipingesse l’Alcazar fascista come dipinse Guernica antifascista; dimenticando il filone futurista e fior d’artisti fascisti.

Eco suonò l’allarme perché stava crescendo agli inizi degli anni ‘70 la cultura di destra (tra Il Borghese, Volpe, la Rusconi diretta da Cattabiani). E le dedicò uno sprezzante articolo, confondendo volutamente pensatori e picchiatori, “magistrati retrivi” (allora le toghe erano considerate protofasciste) e riviste culturali. Disprezzò autori come Guareschi e Prezzolini, Evola e Zolla, Panfilo Gentile e “il risibile pensiero reazionario”. E fece una notazione volgare: “la nuova destra rinasce soltanto perché un certo capitale editoriale sta offrendo occasioni contrattuali convenienti a studiosi e scrittori, alcuni dei quali rimanevano isolati per vocazione, e altri non sono che arrampicatori frustrati”. Un’analisi così rozza e faziosa non l’abbiamo letta neanche nei volantini delle Brigate rosse. Fa torto al suo acume. E’ come se spiegassimo la cultura di sinistra con i soldi venuti dall’Urss o dalla finanza che paga le sue imprese editoriali.

Eco avvertì i suoi lettori che “il capitalismo come entità metafisica e metastorica non esiste”. Al fascismo, invece, Eco attribuì entità metafisica e metastorica elevandolo a Urfascismo: il fascismo come eterna dannazione. Sul rapporto tra cultura e capitalismo la considerazione becera fatta sugli autori di destra si inverte quando invece si tratta di un autore “di sinistra”: anche se “ha un rapporto economico con i mezzi di produzione” lui non ne dipende, perché conta “il rapporto critico dialettico in cui egli si pone con il sistema”. Traduco: se la cultura di destra trova investitori è asservita al Capitale e lo fa mossa solo dai soldi; se la cultura di sinistra è finanziata dal Capitale, invece usa gli investitori ma non si fa usare e ha scopi nobili… Può vivere “di prebende largite da chi detiene i mezzi di produzione” perché quel che conta è “la presa di coscienza” (direi ben altra presa…). Loro prezzolati, noi illuminati.

Prima che semiologo Eco è ideologo. Mascherato. Esprime quell’ideologia illuminista radical che traghetta la sinistra dal comunismo al neocapitalismo, spostando il Nemico dai padroni ai fascisti, dal Capitale ai reazionari, in cui Eco include cristiano-borghesi e maggioranze silenziose. L’antifascismo assurge a religione civile, a priori assoluto nella lotta tra Liberazione e Tradizione, che sostituisce la lotta di classe. Eco dimostra che la destra viene demonizzata anche quando non si può ridurre al rozzo cliché dei picchiatori o dei prepotenti, o mutatis mutandis dei leghisti o dei berluscones. Ma si accanisce sprezzante anche sulla destra colta, i suoi libri, i suoi editori, scrittori e filosofi, oggi da cancellare, ieri da eliminare; come accadde a Gentile. Un assassinio pensato in seno alla cultura e nutrito col fiele dell’ideologia. Il passato, a volte, echeggia.

Dante era di destra, dice Eco, e sentitamente lo ringrazio anche se mi ribello in cuor mio all’idea di ridurre un Grande a una parte politica moderna. Eco fa poi un terribile autogol. Scrive che “il vero intellettuale è colui che sa criticare quelli della propria parte, perché per criticare il nemico bastano gli uomini dell’ufficio stampa”. Beh, ho letto svariati attacchi e battute di Eco contro ogni destra, ma non ricordo una sola critica “alla propria parte”.

Anzi Eco fu il precursore e l’ideologo della svolta dal comunismo alla sinistra dem, liberal e radical. Individuò il target in quella fascia ampia che andava “dai radicali dell’Espresso alla sinistra del Pci”. Il progetto era ancora gramsciano: portare l’illuminismo alle masse, ma il nuovo illuminismo di Eco è passato dalla civiltà dei consumi e della televisione, dai mezzi di comunicazione pop e dal “superuomo di massa”, dai diritti civili, si è fatto internazionale più che nazional-popolare. L’impianto dei suoi valori è organico alla storia della sinistra, dal progressismo all’antifascismo; eleva il fascismo a Nemico Eterno (Urfascismus).

Il documento di quel passaggio lo rintracciamo in un saggio in due puntate che Eco dedica nell’ottobre del ’63 alla sinistra su Rinascita, il settimanale del Pci diretto da Togliatti. È lì in nuce la svolta della sinistra che verrà, quando cadrà la subalternità all’Urss e la sinistra passerà per così dire da l’Unità a la Repubblica, ovvero dal Pci al mondo radical de l’Espresso. Eco pose il problema di modernizzare la sinistra, inglobare le sinistre sfuse e i cattolici progressisti, di aprirsi alle culture pop ibridando ideologie e costumi, di guardare più all’America che alla Russia e di sposare quelle campagne che poi saranno tradotte in antifascismo, antirazzismo e antisessismo. C’è un pamphlet su Umberto Eco e il Pci che ripercorre la storia di quel saggio del ’63 (autori C. e G.Capris, ed. Imprimatur). Eco non esita a definire gramsciana la sua lettura del contemporaneo nel Superuomo di massa.

E gramsciana resta la sua idea del ruolo di guida degli intellettuali in questo processo e nella critica sociale. Non intellettuali organici a un partito ma un partito emanazione di quel clero di intellettuali. “È fuori di dubbio, scrive Eco in quel saggio su Rinascita – che la diffusione dei mezzi di massa vada analizzata e giudicata dal punto di vista ideologico”. Non solo giudicata ma anche guidata, come ha dimostrato il politically correct… Eco esorta a passare dal marxismo alla semiotica per leggere il mondo d’oggi come una mitologia. E, a differenza della sinistra contestatrice, che usa la scuola di Francoforte per criticare la modernità, Eco entra nel mondo pop, non disdegna le nuove forme di cultura contemporanea. L’egemonia culturale impostata da Togliatti era ancora un sogno umanistico che si fermava ai piani alti della cultura e dell’arte, mentre l’egemonia culturale venuta fuori dopo il ’68 è più pervasiva e investe il cinema, i giornali, la tv, lo spettacolo. Ecco la fenomenologia di Mike Bongiorno. Ecco la nascita de la Repubblica da una costola de L’Espresso, di cui Eco fu il nume tutelare. Intelligenza ironica e vasta erudizione, ma Eco fu ideologo e cattivo maestro.                                                   (Marcello Veneziani)