Einaudi: liberale, economista, europeista

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di Aldo A. Mola
(Storico)

NEL 70° DEL SUO INSEDIAMENTO ALLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA

L’Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella su Einaudi a Dogliani (12 maggio 2018))

Tratto da “ Lessico Finanziario “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore

Il 12 maggio 2018 il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha rievocato Luigi Einaudi nel 70° del suo insediamento alla Presidenza della Repubblica italiana, visitandone i luoghi memoriali: la tomba nel cimitero di Carrù (Cuneo) e la villa in Dogliani, dalla celebre biblioteca, ove è stato accolto dai famigliari dell’insigne Statista, guidati dal nipote architetto Roberto Einaudi.
Nella sala del consiglio municipale di Dogliani, dopo il denso profilo culturale tracciatone da Massimo L. Salvadori, il Presidente Mattarella ha rievocato alcuni aspetti fondamentali del ruolo svolto dal suo predecessore, al quale toccò, con Alcide De Gasperi, “il compito di definire la grammatica della democrazia italiana appena nata”. Accolta in spirito di servizio la proposta di elezione alla suprema carica dello Stato, recatagli da Giulio Andreotti su incarico di De Gasperi (in alternativa a quella di Carlo Sforza e in contrapposizione a Vittorio Emanuele Orlando, sostenuto dalle sinistre), pur privilegiando l’esercizio della “moral suasion” anche con lettere private, Einaudi unì discrezione e fermezza nella rivendicazione delle prerogative di Presidente, “a partire dall’esercizio del potere previsto dall’art. 87 della Costituzione, che regola la presentazione alle Camere dei disegni di legge
di iniziativa governativa”. Rinviò al Parlamento due leggi “perché – ha ricordato il Presidente Mattarella – com- portavano aumenti di spesa senza copertura finanziaria, in violazione dell’art. 81 della Costituzione”. Erano somme modeste, ma contava il principio.

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Suscitando la composta approvazione dei presenti, il Presidente Mattarella ha altresì ricordato che dopo le elezioni del 1953 per la designazione del nuovo presidente del Consiglio in successione a De Gasperi Einaudi non accolse l’indicazione della Democrazia Cristiana, all’epoca partito di maggioranza, ma designò Giuseppe Pella, già apprezzato ministro del Tesoro, che guidò il governo tripartito (DC, Partito repubblicano, partito socialista democratico), con Mario Scelba all’Interno.
Per chiarezza e a futura memoria, il 12 gennaio 1954 Einaudi lesse ad Aldo Moro e a Stanislao Ceschi, presidenti dei gruppi parlamentari democristiani, la “nota verbale” sulla corretta interpretazione dell’art. 92 della Carta (“Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio”), motivata dal “dovere del Presidente della Repubblica di evitare si pongano precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore, immuni da ogni incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”. È un dovere anche oggi incombente.

Ampio consenso tra i presenti, come poi nei “media”, ebbero altri passi dell’intervento del Presidente Mattarella su molti aspetti del magistero einaudiano, “influenzato dalla tradizione del cattolicesimo liberale e, in qualche modo, dalla sua Piemontesità, dalla radice risorgimentale che diviene dimensione intellettuale e senso della appartenenza alla terra di origine”. Di lì la sua avversione all’“assemblearismo” (“il governo di assemblea vuol dire tirannia del gruppo di maggioranza” scrisse Einaudi) e al “mandato imperativo” (escluso dall’art. 67 della Costituzione), nonché la ferma rivendicazione della libertà, quale fondamento dello Stato. “Esponente della cultura antifascista – ha detto il Presidente Mattarella a Dogliani – firmatario del Manifesto promosso da Benedetto Croce, senatore del Regno, Einaudi non mancò mai alle sedute in cui manifestare dissenso a provvedimenti liberticidi, come nel 1928, quando venne approvata la riforma elettorale che introduceva la lista unica dei candidati approvata dal Gran Consiglio del fascismo, o su provvedimenti contro l’umanità, come le leggi razziali del dicembre 1938”. Fu “un patriota, consapevole di contribuire, con la sua testimonianza, lui, di orientamento monarchico, al consolidamento della Repubblica democratica”.

Un passo dell’intervento presidenziale rimarrà me- morabile perché, attraverso le parole di Einaudi il Capo dello Stato ha fatto intendere la propria missione. Riferendosi all’intervento di Vittorio Emanuele III per portare l’Italia al di fuori della catastrofe nell’estate 1943, Einaudi osservò che la prerogativa sovrana “può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se tacita, del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere una situazione che gli eletti del popolo da sé non sono capaci di affrontare o per stabilire l’osservanza della legge fondamentale, violata nella sostanza anche se os- sequiata nell’apparenza”. Contrariamente a quanto molti hanno scritto, per Einaudi l’Italia del Ventennio non fu “diarchia”. Nell’ora decisiva, il 25 luglio 1943, il Re esercitò i poteri statutari revocando Benito Mussolini da capo del governo. Fu l’inizio di un nuovo corso storico.

Un profilo dello Statista

Luigi Einaudi (Carrù, CN, 24 marzo 1874 – Roma, 30 ottobre 1961) fu eletto primo Presidente effettivo della Repubblica Italiana al quarto scrutinio l’11 maggio 1948, con 518 suffragi su 871 votanti. Liberale, monarchico e piemontese prevalse sul siciliano Vittorio Emanuele Orlando, parimenti liberale, monarchico, “presidente della Vittoria”

Einaudi non aveva studiato da capo dello Stato. Aveva studiato. Perso a dodici anni il padre (esattore delle imposte, recandole nottetempo in calesse dalle Langhe a Cuneo in certi tratti armava la rivoltella) crebbe in casa dello zio, Francesco Fracchia, notaio a Dogliani. Nel 1922 ne raccolse e pubblicò gli Appunti per la storia politica ed amministrativa di Dogliani. Allievo nel collegio dei Padri Scolopi a Savona, nel 1888 fu proclamato “Principe dell’Accademia” su indicazione del geografo Arcangelo Ghisleri. Einaudi fu cattolico praticante, ma senza ostentazione e rispettoso di altre confessioni Per capirne le radici bisogna visitarne le terre d’origine, le stesse di Giovanni Giolitti e di Marcello Soleri, come ha narrato suo nipote Roberto, architetto e già Presidente della Fondazione Luigi Einaudi di Roma. Il suo mondo era ispirato dai principi all’epoca comuni non solo alla classe dirigente diffusa ma tra tutte le persone perbene, anche umili genere natae. I loro motti erano “aiuta te stesso, “volere è potere”, come insegnò il grande naturalista Michele Lessona, intrinseco di Giovanni Giolitti.
Laureato in giurisprudenza a Torino appena ventenne, dopo un breve impiego alla Cassa di Risparmio di Torino Einaudi iniziò a scrivere per “La Stampa” di Torino già nel 1896, fu professore all’Istituto Tecnico “Franco Andrea Bonelli” di Cuneo e al “Germano Sommeiller” di Torino. Divenne “il maggiore economista liberale del Novecento” a giudizio di Francesco Forte, docente nella sua stessa cattedra di Scienze delle Finanze. Aveva già alle spalle opere prestigiose, come “Un principe mercante”. Studi sull’espansione coloniale italiana, sulla finanza nello Stato sabaudo e sulle imposte. A lungo collaboratore della rivista “Critica sociale” di Filippo Turati e di Claudio Treves, crebbe nel laboratorio della “Riforma sociale” promossa dal pugliese Salvatore Cognetti de’ Martiis, la cui direzione assunse nel 1908. Collaboratore dal 1903 del quotidiano milanese “Corriere della Sera” diretto da Luigi Albertini e dal 1922 dell’“Economist”, Einaudi polemizzò aspramente contro i “trivellatori dello Stato e rimproverò a Giolitti, massimo statista della Nuova Italia, di utilizzare il potere per mediare tra le parti sociali e garantire una costosa “stabilità di governo” a beneficio di troppi “clienti” e di opportunisti. Docente straordinario di scienza delle finanze a Pisa nel 1902, lo stesso anno fu chiamato dall’Università di Torino, ove ebbe la cattedra ad vitam.
Credeva nella “bellezza della lotta”, cui intitolò un saggio nel 1923. Interventista nel 1914-1915, il 6 ottobre 1919 fu nominato senatore da Vittorio Emanuele III su proposta del Presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Rievocò le sue esperienze alla Camera Alta in un saggio del 1956 pubblicato nella “Nuova Antologia”

1. Nel 1922 appoggiò il governo di coalizione nazionale pre- sieduto da Benito Mussolini, che ventilò il proposito di averlo Ministro delle Finanze affinché potesse attuare i suoi insegnamenti: ridurre drasticamente la spesa pub- blica “clientelare”, ripristinare il prestigio dello Stato, assicurare i servizi, azzerare mafie, camorre e tagliare le unghie agli opposti corporativismi: imprenditori “pescicani” e sindacati parassitari

Rimasto escluso dall’esecu- tivo ne vegliò la condotta dalle colonne dell’“Economist”

“Nuova Antologia”, febbraio 1965, pp.173-208.
A Luigi Ambrosini, che lo intervistò per “La Stampa” nel viaggio da Milano a Roma (29/30 ottobre 1922) Mussolini disse: “Intendo che i teorici facciano la prova pratica delle loro teorie. L’Einaudi ha detto che bisogna ridurre le spese, risparmiare, risparmiare. È quello che voglio anch’io”. Nella lista dei ministri che Mussolini aveva con sé Ambrosini lesse il nome di Einaudi. Il 7 novembre Einaudi precisò pubblicamente di non essere stato invitato a far parte del governo. Il ministero per lui preconizzato fu assegnato ad Alberto De Stefani.
e del “Corriere”. Al fervore scientifico unì la passione civile per le libertà. Già direttore delI’Istituto di Economia “Ettore Bocconi” di Milano, pubblicò una raccolta di sagi per il giovane editore torinese Piero Gobetti, strenuo oppositore e vittima del regime incipiente.
All’indomani dell’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (10 giugno 1924) per mano di una squadraccia fascista, Einaudi deplorò pubblicamente “il silenzio degli industriali”. L’anno seguente aderì al “Manifesto” degli intellettuali antifascisti scritto da Benedetto Croce. Le sue opere erano ormai ben note anche oltre Atlantico. Come Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, nel 1918 aveva giustapposto al sogno della Società delle Nazioni la più realistica e urgente Federazione europea per scongiurare che dal collasso degli imperi nascessero devastanti nazionalismi. Tornò da altro versante a scriverne in “Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo”, in controcanto con il “giolittiano” Benedetto Croce, autore della Storia d’Italia (1928). Sarebbe però errato ritenere che Einaudi fosse un “liberista assoluto”. Tra le sue massime spicca “l’uomo libero vuole che lo Stato intervenga”. Il suo era “liberalismo senza aggettivi”. Come ha ricordato Tito Lucrezio Rizzo nel suo profilo biografico, Einaudi ammonì: “la scienza economica è subordinata alla legge morale” di vasto respiro e profondità documentaria e critica spiccano due sue opere degli Anni Trenta: “La condotta economica e gli effetti sociali della guerra” (1933), scritta quindici anni dopo la fine della Grande Guerra, e “Teoria della moneta immaginaria nel tempo da Carlomagno alla rivoluzione francese” (1936).
Dopo l’arresto e la breve detenzione dei figli Giulio e Roberto (il terzo, Mario, era migrato negli Stati Uniti 1 I Capi dello Stato dagli albori della Repubblica ai nostri giorni, Roma, Gangemi, 2012. d’America) e la forzata chiusura della “Riforma sociale”1, Einaudi fondò la dotta e prestigiosa “Rivista di storia economica”, pubblicata dalla casa editrice di suo figlio Giulio e protratta sino al 1943. Nel 1938 fu tra i dieci senatori che votarono contro la legge “per la difesa della stirpe” e si pronunciò contro l’antisemitismo e l’incipiente vassallaggio ideologico-diplomatico-militare del governo Mussolini nei confronti della Germania di Adolf Hitler. Tenuto, come tutti i pubblici dipendenti, a dichiarare la propria “stirpe” egli rispose che la sua gente era da sempre “ligure” con apporti di altre genti nel corso del tempo

Dopo molte edizioni dei fondamentali “Principii di scienza della finanza”, condensò decenni di studi in “Mi- ti e paradossi della giustizia tributaria” (1938). Come ha scritto Ruggiero Romano, egli fu “il più grande demitizzatore” italiano del Novecento, non solo su teorie e pregiudizi economicistici, ma con riferimento alla vita sociale: abolizione delle “maiuscole”, dei “titoli” vanesi, dei formalismi pomposi ostentati per celare il vuoto.

Al crollo del regime mussoliniano (25 luglio 1943) Einaudi fu nominato rettore dell’Università di Torino, mentre Filippo Burzio assunse la direzione della “Stampa”. Con la proclamazione della resa senza condizioni (8 settembre 1943), quando l’Italia rimase “divisa in due” (formula poi usata da Croce) e le regioni centro-settentrionali vennero rapidamente occupate dai tedeschi, appreso di essere ricercato egli riparò in Svizzera. Collaborò a “L’Italia e il Secondo Risorgimento” (Lugano) e vi pubblicò, tra altro, “I problemi economici della Federa- zione europea”.

Pubblicata integramente in Luigi Firpo (a cura di), Bibliografia degli scritti di Luigi Einaudi, promossa dalla Banca d’Italia, Torino, 1971, pp. 545-547. 2 Luigi Einaudi, Scritti economici, storici e civili, a cura di Ruggiero Romano, Milano, Mondadori, 1973.
Sulla fine dell’anno seguente fu chiamato a Roma dagli Alleati e dal governo presieduto da Ivanoe Bonomi e, d’intesa con il ministro del Tesoro Marcello Soleri, il 4 gennaio 1945 fu nominato governatore della Banca d’Italia in successione a Vincenzo Azzolini, arrestato per presunta collusione con gli occupanti germanici in danno della Banca stessa. Quale direttore generale volle a fianco Donato Menichella, che non conosceva di persona ma la cui formidabile competenza sulle relazioni tra banca e industria molto apprezzava. Lo attese un compito immane. Aveva pubblicato “Lineamenti di una politica economica liberale”. Il governo era sotto tutela della Commissione Alleata di Controllo. L’amministrazione locale era a sua volta subordinata ai governatori militari. L’Italia meridionale era inondata dalle Am-Lire. La moneta circolante era quasi venti volte superiore a quella d’anteguerra. L’inflazione galoppava. Il prodotto interno in molte regioni era dimezzato. In tante plaghe la popolazione era alla fame. I sei partiti rappresentati nel Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e nel consiglio dei ministri erano divisi, nell’immediato e nelle prospettive ultime. Il capo del governo, Pietro Badoglio, aveva sciolto la Camera dei fasci e delle corporazioni, paralizzando il Parlamento, bicamerale; l’alto commissario per l’epurazione aveva privato quasi tutti i senatori del rango e dei diritti politici e civili. Il governatore dovette quindi valersi di cariche e di poteri ulteriori a sostegno dalla propria opera.

Nominato membro della Consulta Nazionale che preparò la Costituente, Einaudi fu eletto alla Assemblea Costituente (2-3 giugno 1946) tra i deputati del Partito liberale italiano. Nel 1947, dopo il viaggio negli Stati Uniti

Del Comitato centrale di liberazione nazionale fecero parte Partito li- berale, Partito democratico del lavoro, Democrazia cristiana, Partito d’azione, Partito socialista italiano e Partito comunista italiano. Il Partito democratico del lavoro non figurò nel Comitato di liberazione dell’Alta Italia e in quelli regionali (Piemonte, ecc.) da questo dipendenti.
d’America, il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi (della Democrazia Cristiana) lo volle Vicepresidente e Ministro del Bilancio. Con apposito decreto fu confermato Governatore della Banca d’Italia e poté tessere la tela quotidiana della Ricostruzione.
Consapevole delle drammatiche difficoltà nelle quali versava il Paese, anziché vagheggiare progetti tanto vasti quanto inattuabili, puntò realisticamente a interventi “a pezzi e bocconi”, come narrato dal suo fido segretario particolare, Antonio d’Aroma. Doveva ristrutturare un edificio occupato da persone che non potevano esserne allontanate, la “romana burocrazia nostra sovrana”.
Per attuare il risanamento monetario a suo avviso non esistevano “mezzi taumaturgici”. Dopo il prestito nazionale promosso da Marcello Soleri, che gli dedicò gli ultimi febbricitanti mesi di vita con patriottismo esemplare, Einaudi lasciò che il tempo facesse tramontare propositi inattuabili, quali il “cambio della lira”, che avrebbe provocato la fuga dei pochi capitali disponibili e scoraggiato investimenti dall’estero. Come da lui previsto, in un paio d’anni le speculazioni si esaurirono e l’inflazione si ridusse a indici accettabili, con la ripresa della produzione e del mercato, favorita dai giganteschi prestiti senza oneri da parte degli USA nell’ambito del Piano Marshall. Contrario a imposte straordinarie e contrarissimo a tasse patrimoniali che avrebbero colpito media e piccola proprietà (se ne era occupato sin dal magistrale saggio del 1920 su “Il problema delle abitazioni”), Einaudi mirò alla riesumazione della classe media, della scuola (pubblica o privata, purché seria, formativa, rigorosa), alla valorizzazione di quanti servivano lo Stato con dedizione alimentata dal ricordo delle tante sofferenze vissute nelle due guerre e a prezzo di tante vite. Monarchico libero da feticismi, poté presto salutare il plebiscito del “quarto partito”: i risparmiatori, spina dorsale della Nuova Italia. Nella sua immane opera ebbe collaboratori il biellese Giuseppe Pella, futuro Presidente del Consiglio, e l’insigne economista Gustavo Del Vecchio.
Alla Costituente pronunciò discorsi appassionati e taglienti. Componente della Commissione dei Settantacinque che, presieduta da Meuccio Ruini, redasse la bozza della Carta, ottenne l’approvazione dell’articolo 81, che recita: “Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.
Nominato membro di diritto del Senato della Repubblica (22 aprile), all’indomani delle elezioni, prese parte all’inaugurazione della prima legislatura, chiamata a eleggere il Capo dello Stato.

Alle 6 del mattino dell’11 maggio 1948 Giulio Andreotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio andò a informarlo che al quarto scrutinio De Gasperi lo avrebbe fatto votare Presidente della Repubblica per superare lo stallo sul nome di Carlo Sforza, già in tre votazioni sostenuto dalla Democrazia Cristiana senza successo. Il settantaduenne statista non gli ricordò di aver votato monarchia; lo aveva fatto anche Andreotti. Osservò invece che, claudicante e minuto qual era, avrebbe dovuto sfilare dinnanzi ai corazzieri. Fu eletto e nessuno trovò alcunché da obiettare. I corazzieri non avevano dimenticato Vittorio Emanuele III…
Capo dello Stato, Einaudi lasciò memoria del suo operoso settennato in “Lo scrittoio del Presidente” e “Prediche inutili”. Continuò a studiare, a pubblicare e a promuovere ricerche per unire gli italiani, come poi fece negli anni seguenti, restituito alla cattedra universitaria con speciale decreto. Improntò l’esercizio del suo ruolo alla discrezione, al rigore, alla continuità. Lo si vide con l’istituzione del Segretariato Generale, nel solco del Ministero della Real Casa: nulla di enfatico, tutto volto al pratico, con la misura della austerità. All’inizio del 1945 aveva tracciato le linee del nuovo liberalismo: “quando al figlio del povero saranno offerte le medesime opportunità di studio e di educazione che sono possedute dal figlio del ricco; quando i figli del ricco saranno costretti dall’imposta a lavorare; se vorranno conservare la fortuna ereditata; quando siano soppressi i guadagni privilegiati derivanti da monopolio, e siano serbati e onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova, e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio ceto; quando il medio ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi”.

Qual è l’eredità di Einaudi? Quando sentiva (talora anche da persone vicine) vagheggiare di ideologie “sovietiche” neppure rispondeva: batteva il bastone per terra per dire che era impossibile dialogare. Anch’egli auspicò riforme mai attuate, a cominciare dall’abolizione del valore legale dei titoli di studio. Avversò strenuamente il mito dello “stato sovrano”, anche con pagine pubblicate nella “Piccola antologia federalista”, comprendente scritti di Jean Monnet, Denis de Rougemont e di altri.
Cultore profondo del “senso dello stato” che, spiegò Benedetto Croce, Ministro dell’Istruzione nel V governo presieduto da Giolitti (1920-1921), non è solo “liberismo”, è “liberalismo”, Einaudi ne indicò i fondamenti nella tradizione civile sorta dalla cultura classica e dall’illuminismo, alla cui riscoperta critica si de- dicarono egli stesso, bibliofilo appassionato, e Franco Venturi. Da presidente della Associazione de piemontesi a Roma nel 1961 promosse i due poderosi volumi “Storia del Piemonte” (ed. Casanova). Alla rievocazione del passato quale alimento irrinunciabile per la costruzione della nuova Europa dedicò saggi memorabili, quali “Andiamo in Piemonte!” (pubblicato nel 1949 da “Il Ponte”, diretto da Piero Calamandrei) e “Piccolo mondo antico”, affidato a “Nuova Antologia”, la rivista che lo ebbe collaboratore sin dal 1900 e nella quale raccolse le finissime riflessioni “Di alcune usanze non protocollari attinenti alla Presidenza della Repubblica” (agosto 1956).
Quali pionieri e numi tutelari del federalismo europeo vengono solitamente citati Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, autore del piano che dette vita alla Comunità europea del carbone dell’acciaio. Tra i profeti e artefici della Nuova Europa va però posto e ricordato in primo luogo proprio Luigi Einaudi, capace di conciliare concretezza e profezia, sulla base irrinunciabile dello studio storico e della scienza delle finanze e dell’economia politica, senza la quale la politica economica è vaniloquio1.

L’eredità di Luigi Einaudi. La nascita dell’Italia repubblicana e la costruzione dell’Europa, curato da Roberto Einaudi (Torino), Milano, Ed. Skira, 2008.
V. infine Roberto Einaudi, Radici montane. Viaggio nella Val Maira del primo Risorgimento, Torino, Aragno, 2012, e il DVD Giovanni Giolitti, lo Statista della Nuova Italia, a cura di Aldo A. Mola (disponibile presso Associazione di studi storici Giovanni Giolitti, via Plochiù 5, 10061, Cavour)