Enrico Berlinguer, statista. Perché faceva politica per tutti, e per unire

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Impossibile in questi giorni di un’Italia frastornata e battuta da un governo incapace tenuto insieme solo dall’attaccamento al potere fine a se stesso, di un’Italia sfiduciata e stanca, non andare con la mente a quella sera di trentacinque anni fa, a quella piazza di Padova dove Enrico Berlinguer teneva il suo ultimo comizio, dove viveva l’ultima giornata di militante e dirigente del più grande partito comunista dell’occidente.

Impossibile non pensare che oggi la mancanza di uomini come lui, e altri e altre donne coraggiose e tenaci, ci costringe a una contingenza amara dove la politica non riesce più a essere al servizio del Paese, ma è sempre e solo la raffigurazione di una scalata alle posizioni di visibilità, di potere, di comando.

Appare oggi attualissima, alla luce di quel ricordo, la definizione di statista: chi si pone come primo orizzonte l’interesse del Paese, l’interesse collettivo, oggi che viene definito statista chi occupa posizioni di rilievo all’interno dello Stato anche se degli interessi dello Stato, cioè degli interessi di tutti non se ne fa un problema, una questione da affrontare, una soluzione da trovare.

Enrico Berlinguer fu prima di tutto uno statista, mise sempre al di sopra di tutto gli interessi collettivi, fu capace di dare indirizzi, di imporre svolte, non sempre vincenti e non sempre convincenti, ma sempre guidate e ispirate dalla consapevolezza che le soluzioni o sono per tutte e tutti o non lo sono affatto.

Su tutto, nel suo pensiero e nel suo agire politico c’è un richiamo all’esigenza di unire le forze del progresso in opposizione a quelle sentinelle degli interessi dei pochi.

Analizziamo il suo pensiero e il suo agire, prendiamone spunto critico ed evitiamo di farne una generica icona, non riduciamo il suo portato a una maglietta come fatto per il Che.

Ciao Enrico.