Fabrizio Palenzona

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Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore
Il mio amico Beppe Ghisolfi mi ha chiesto una “biografia”. Non so se lui si aspettasse quanto segue. Non ho voluto elencare cose e fatti, molti già noti, ma confessare motivi, fede, cultura, sentimenti e speranze che sono la mia vita più delle cose che ho fatto.
Alle volte, infatti, le cose sono più semplici e più limpide di quanto si voglia far credere. E a dire il vero, sono anni che io ridisegno dentro di me i confini, i territori della mia vita e di quello che faccio. Definirsi un banchiere vorrebbe dire questo, secondo la vulgata corrente: qualcuno che amministra grandi somme di denaro; qualcuno che ha competenze con i grandi affari, qualcuno che è capace di investire, di stringere patti, di fondere o di creare società; qualcuno che produce ricchezza; qualcuno, insomma, come nella celebre battuta di “Nove settimane e mezzo”, che fa soldi con i soldi: «Make money with money». Può essere, ma le cose poi, alla fine, come ho detto, sono sempre semplici e limpide, e non puoi che vederle così se da bambino sei cresciuto in un altro modo, e il modo è quello più nitido di tutti. Se ricordi i tuoi piedi che affondano nel fango dello Scrivia, non distante da casa mia; se, mandato dalle zie, sei corso in strada a raccogliere “i fichi”, ovvero gli escrementi dei cavalli che passavano di fronte a casa trainando i carri, perché era letame buono soprattutto per i gerani; se hai visto gli aratri con il bue e i contadini a lavorare la terra; se hai visto quelle vite di campagna sul crinale, sul finire di un tempo, con la gente che passo dopo passo provava ad abituarsi a un nuovo mondo che di lì a poco non soltanto si sarebbe affiancato a quello vecchio, ma se lo sarebbe lentamente fagocitato, assorbito, fino al rischio di renderlo perduto, dimenticato, se non proprio cancellato del tutto. I banchieri non fanno soldi con i soldi, o meglio non dovrebbero fare soltanto quello: i banchieri sono gente che dovrebbe stare lì, di fronte alle comunità, con il compito di sapere e indicare come si può fare a permettere alle comunità di ottenere il credito nel modo migliore e vantaggioso possibile, e di intraprendere senza troppe paure e riducendo i rischi. Quando ero bambino si andava il sabato al cinema. Erano poche le sale, ed erano pochi anche i film, ma quelli western non mancavano mai. E nei film western, in quelle città costruite nei deserti, si aggiravano i cowboy alla conquista della frontiera. In quelle città i quattro edifici fondamentali, in legno, costruiti trave su trave, erano ovviamente la chiesa, il saloon, l’ufficio dello sceriffo, e la banca: il buon Dio, la legge e lo Stato, lo svago, e l’economia. Che poi la banca venisse sempre assaltata e andasse difesa dallo sceriffo, lo sappiamo tutti. Ed è una storia che si ripete sempre. Sono nato a Pozzolo Formigaro il primo giorno di settembre del 1953. In quell’estate, un mese prima, Alcide De Gasperi dava le dimissioni da Presidente del Consiglio del suo ottavo Governo. Non sarebbe più tornato a Palazzo Chigi. E finiva un’epoca, per il Paese e per la Democrazia Cristiana. Due giorni prima che nascessi, uno delle mie parti, precisamente di Castellania, nel tortonese, aveva vinto il suo primo titolo mondiale. Si chiamava Fausto Coppi. Sono nato a Pozzolo Formigaro un paese della provincia di Alessandria, vicino a Novi Ligure, ma territorialmente legato alla zona di Tortona. Ripeto perché è tanto, forse tutto. Mio padre era il cancelliere della Pretura. Mia madre si occupava di noi figli, di me e mio fratello, delle zie, che erano una presenza costante nella mia vita e nella mia famiglia. E la mia famiglia, tutta, era presente e attiva nella comunità, nella vita del paese. Sono parole che oggi si usano molto, ma che alle volte purtroppo appaiono un po’ astratte; parole come volontariato, solidarietà, testimonianza cristiana, impegno sociale, e impegno politico. Ora queste parole si dicono, allora si vivevano tra le due parrocchie di Pozzolo e il Comune. Il centro amministrativo e quello religioso. Sono nato in una famiglia cattolica romana, non soltanto osservante, perché il definirsi semplicemente osservanti mi dà la sensazione di qualcosa di passivo, quando invece la fede e l’impegno sono attivi, sono realtà, sono entusiasmo, sono, e qui nessuno si scandalizzi: politica. Sono profondamente cattolico (cattolico peccatore, c’è bisogno di dirlo?). Ero il più bravo chierichetto di Pozzolo, al punto che se c’era qualche esigenza di servire messa mi venivano a prendere anche a scuola. E sono profondamente politico. Ho sempre pensato che è la politica il centro, l’altro nodo morale del nostro mondo. E se questo fa storcere la bocca ai populisti, ai turbofinanzieri, ai banchieri poco inclini a guardare un po’ più là, verso la gente, mi importa assai poco. Perché io scrivo quello che penso, e quello che penso credo sia giusto. E senza politica, da Atene in poi, non si fa nulla, e non si arriva da nessuna parte, neppure nelle banche. Con buona pace di coloro che volevano la politica fuori dalle Fondazioni, e che non sanno che della politica è impossibile fare a meno: o la fai o la subisci. È come l’aria: o è pulita o respiri male. E senza la politica non avrei fatto quello che ho fatto. Non senza l’aiuto della politica, ché forse non sarebbe neppure giusto e neppure corretto. Ma senza il pensare la politica come la politica deve essere: il ragionare e l’indirizzare la cosa pubblica in direzione delle persone, della gente, del popolo che vive la sua vita, e che progetta il futuro dei propri figli e delle generazioni che verranno. Deve valere per tutti, per i credenti come me, per i laici, persino per gli atei. Vincenzo Maranghi, che era religiosissimo, sia ben chiaro, diceva a certi banchieri capaci di grandi operazioni sofisticate e di mostrare il modo più moderno di fare banca: «Voi fate la banca della prossima settimana, io faccio la banca del prossimo secolo». Non sono certo Vincenzo Maranghi, ma di lui sono stato amico e da lui ho imparato moltissimo, così come ho conosciuto e ho cercato di apprendere dal dottor Enrico Cuccia, di cui mi ha impressionato la personalità e la sua complessa semplicità. E posso dire che i campioni della cosiddetta finanza laica – Cuccia in primis – erano cristiani, cattolici credenti e praticanti, e tanti luoghi comuni e stereotipi che li hanno riguardati non esistono. Ho sempre pensato che avessero ragione anche quando non capivo. Ora lo so. Ma questo, comunque, era il mio intendimento, questo è quello che ho fatto.
Il merito di quel poco che sono è di mio padre e di mia madre. Sono loro ad avermi trasmesso i valori che ancora oggi sono i fondamenti della mia vita. Oltre a loro c’è un uomo importantissimo che – come oso dire con una frase forse facile, ma vera – mi ha cambiato la vita. L’ho incontrato che ero poco più di un ragazzo, al Santuario di Crea, un luogo molto bello in provincia di Alessandria. Mi ci aveva portato mio padre. In quei luoghi si riuniva la corrente democristiana di Forze Nuove, e lì ascoltai per la prima volta Carlo Donat-Cattin. Fu una folgorazione. In lui c’era un impegno sociale e politico che si univa a una ferma e umile religiosità. In lui vidi immediatamente la capacità di attenzione ai più disagiati; il culto del lavoro, che era dignità, rispetto e persino riscatto; il guardare alle fabbriche, ai quartieri delle periferie, a una modernità che già allora mostrava di voler trascurare l’etica per il semplice profitto, oscurando i diritti in nome di una crescita a costo di perdere l’essenziale di ciò che è umano. La lucidità delle sue argomentazioni, persino la sua durezza. La sua capacità di non piegarsi mai a nessun potere che potesse mettere in discussione i suoi valori, anche se quel potere era la Fiat, la fabbrica della sua città. E poi il suo modo di vivere umilmente, con grande dignità e grande senso della giustizia… Tutto questo lo costituiva, era una sola cosa in lui: e mi conquistò. Entrai nella DC per Donat-Cattin. Sono stato un esponente di Forze Nuove, e sono stato suo amico, anche se non avrei mai osato definirmi in questo modo per tutta la mia vita. E lo sono ancora oggi, perché gli amici si onorano anche con la memoria di quello che sono stati e di quello che hanno fatto. Non è un dettaglio, intendiamoci. In fondo, per una piccola parte, se esiste UniCredit è anche un po’ per questo motivo: per questo senso della politica, della comunità, del territorio, che nella mia esistenza è fortissimo e con il passare degli anni sempre più radicato. E allora la racconto dall’inizio. Nel giugno del 1995 divento Presidente della Provincia di Alessandria dopo essere stato sindaco di Tortona. Lo divento con i voti della gente, non per cooptazioni o per decisioni prese dentro una segreteria di partito. Era la prima volta che si votava direttamente il Presidente della Provincia, e nessuno pensava potessi riuscire. Avevo fatto molte cose prima. Una esperienza importante, anche dal punto di vista interiore e personale, in Friuli, dopo il terremoto del 1976, con quella che sarebbe poi diventata la Caritas. Un lavoro di cui vado fiero, allora come oggi, con la Federazione Autotrasportatori Italiani, che mi ha portato ai vertici dell’organizzazione e ha consentito ai padroncini, come venivano e vengono chiamati, di lavorare in un modo un po’ migliore, e di rendere i loro viaggi più sicuri e remunerativi. Sono stato il primo sindaco democristiano di Tortona, cosa mai accaduta in precedenza, quasi inaudita. Sono stato tra i primi a varare una giunta “anomala” sorretta da un quadripartito (DC, PCI, PRI e PLI) con i comunisti (con un po’ di arrabbiature di Donat-Cattin, che era fortemente anticomunista). Quando arrivo in Provincia, vi porto il mio percorso politico e al contempo manageriale. Manageriale per il mio lavoro con l’autotrasporto, politico perché quel tipo di carriera – Comune, Provincia – mi avrebbe condotto prima o poi a una candidatura a Deputato o Senatore, e quello era un tragitto che avevo messo in conto, in un certo qual modo. Del resto, per il tipo di formazione che avevo, il tipo di idee che mi sorreggevano, era lo sbocco più ovvio, la strada meglio delineata per immaginare il mio futuro. Solo che, dopo un paio di settimane dal mio insediamento, eravamo a luglio 1995, il Ragioniere Capo della Provincia mi dice: «Dottore, ci sarebbe da nominare la persona che entra nella Fondazione della Cassa di Risparmio di Torino per la Provincia di Alessandria. Scade a settembre, ci vada lei per questi due mesi, inutile nomi- nare qualcuno che poi scadrebbe quasi subito». Io non ci volevo andare. So che non è facile da capire, ma per gente come noi, cresciuta con la politica, era la politica il centro vero delle cose. Noi volevamo fare politica, non volevamo fare banca, per usare un’espressione tanto di moda negli ultimi tempi. E io non ne avevo voglia di fare banca, non mi interessava. Per chi faceva politica la banca era uno degli strumenti, non era lei, non doveva essere lì, la regia dello sviluppo. Mi convinco e vado perché era la soluzione più sem- plice ed economica. E mi accorgo che lì c’è un mondo. E che mondo! Guai a ritenerla marginale rispetto alla politica. Anzi: lì si gioca il nesso tra territorio, comunità e risparmio. Per capirci, erano 24 miliardi di vecchie lire, circa, che venivano ogni anno ridistribuite al territorio per aiutare le comunità. E capisco subito che quello è un mondo che va pensato anche attraverso la politica. Poi le cose sono cambiate, l’importanza delle fondazioni è stata ridimensionata, le banche hanno fatto le banche, e le grandi concentrazioni hanno portato questo mondo in un’altra direzione.
Ma quando Comit vuole comprare la Cassa di Risparmio di Torino, per una cifra che si aggira attorno ai 2.800 miliardi di lire e vengo chiamato da Vincenzo Maranghi perché l’operazione vada in porto nel miglior modo possibile, io mi convinco che è una buona cosa, per il mio territorio. Sono molti soldi, e alla mia provincia sarebbe toccato all’incirca il 7 per cento del reddito di quel patrimonio. Una cosa enorme, che avrebbe risolto molti problemi. Poi ci rifletto: e mi accorgo che questo sarebbe vero solo all’apparenza. Ed è per questo che cambiai idea. E a cambiare idea mi aiutò proprio la politica, nella figura di un Senatore del mio territorio e mio amico: si chiamava Riccardo Triglia ed era stato presidente dell’Anci (Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia). Triglia mi dice: «Questa vendita sarebbe un po’ il tradimento delle radici, dell’impegno dei nostri padri, della nostra gente e di tutto quello ha messo nelle banche del territorio: è il contrario della nostra storia, e io non lo farei». Cambiai idea, CRT non andò alla Comit e si cominciò una trattativa con realtà culturalmente identiche: le Casse di Risparmio di Verona e Treviso, e poi con Credito Italiano, per fondare Unicredito Italiano. Lo racconto in un modo semplice, naturalmente semplificando molto, perché non è tanto importante rievocare una storia che in buona parte è piuttosto nota, ma perché dietro certe decisioni c’è un pensiero, dietro alcune direzioni da prendere c’è un’idea del Paese, della comunità, della collettività che non è solo idea di profitto e di performance, ma anche un’idea del sociale, di quello che mi è rimasto impresso sin da bambino. Dove ci sono le parole di mio padre e della mia gente, ci sono gli occhi azzurri intensi e severi, spesso impazienti, di Vincenzo Maranghi, e la delicata cortesia fatta di rispetto di Enrico Cuccia, c’è la generosità dei camionisti che ho sempre visto in prima fila quando c’era da portare aiuto, c’è la tensione nervosa, quasi un’etica che si poteva quasi toccare per quanto era materia viva, di Donat-Cattin quando si arrabbiava davvero e mai per se stesso, ma per quelli che difendeva, senza cedere ai potenti nella Torino di padroni abituati a comandare. C’erano i miei preti, i miei parroci, don Antonio Lanati, don Agnes, don Remotti come lo chiamavamo tutti, gente di un livello culturale e di una generosità senza pari: li vedevi impegnati a preparare pacchi con generi alimentari per i poveri che passavano, per i terremotati che non avevano più nulla; pensavano la religione nella convulsa epoca post-conciliare con una fi- nezza e una consapevolezza straordinarie. C’erano i miei amici, c’eravamo noi tutti, a imparare a montare una tenda in Friuli, cosa che prima non avevamo mai fatto. C’era la Croce Rossa, dove per anni ero stato volontario. C’era insomma quel mondo vivo.
Io lo so che questi non sono argomenti di alta finan- za. Non nego che l’ingegneria finanziaria sia impor- tante, ma solo quando è finalizzata all’economia reale. Cuccia diceva: “Con la finanza non si crea ricchezza. Se c’è chi guadagna, c’è un altro che perde”. E l’abbiamo duramente constatato, proprio sulla nostra pelle… Sono fiero di aver lavorato con uomini così. Avevano capito prima ed erano i più bravi. Il tempo sarà galantuomo. Ma oggi, con una crisi che ancora si fa sentire, anche se si intravede uno spiraglio di luce nel tunnel, oggi che abbiamo attraversato un periodo cruciale e drammatico, che dura ormai da quasi un decennio, che ha messo in ginocchio persone e comunità, famiglie e aziende, ban- che e investimenti; oggi, dobbiamo ripartire da questi valori.
Dicevo che la banca all’inizio per me era qualcosa di estraneo. Non volevo andare alla Fondazione CRT, io volevo la politica, la politica non come strumento di potere, ma come opportunità per tutti, non per aiutare secondo una logica assistenziale, ma per progettare il futuro. E naturalmente desideravo viverlo. E per un uomo tirato su come sono stato tirato su io, non posso non aggiungere: cristianamente. Poi mi sono appassionato, e mi sono appassionato alla banca come mezzo, e non certo come fine. Quando UniCredit ha cominciato ad acquisire altre banche europee, soprattutto dell’Europa Orientale, qualche anno dopo il crollo del muro di Berlino, mi parve un dovere immaginare il progetto di una banca europea che servisse la gente da Bilbao a Vladivostock. Ed era innanzitutto un sogno politico. Sogno, ma da cui si svilupparono azioni concrete. Nella mia mente non c’era e non c’è tutt’ora molta differenza tra i miei camionisti e i maghi della finanza che hanno operato fusioni, che hanno reso importanti istituti di credito che si reggevano sul piccolo risparmio, sul lavoro della gente. La mia visione umanistica del mondo non poteva tenere lontano il denaro, quando il denaro serve a far crescere una comunità, aiuta ricchi e poveri, consolida le famiglie, i progetti, dà carne ai sogni. In questo mondo di mille sfumature, in questo alto e basso, io continuavo e ho continuato a fare il politico, a parlare con la gente che mi voleva bene e me ne vuole ancora e ho viaggiato, parlato, pensato a un mondo dove il nostro Paese fosse protagonista del suo tempo, e non soltanto uno spettatore, magari periferico. Ho imparato sempre e continuo ad imparare. Se parti da un paesino come Pozzolo hai il privilegio e la fortuna di sapere che devi imparare. E forse è più facile vivere e operare con questa consapevolezza piuttosto che con la convinzione di sapere tutto e di vincere contro tutti. La fede è stata l’altra chiave di volta del mio operare, del mio agire e del mio pensare il mondo. Insomma: fede, politica, passione, compassione. Non mi pretendo campione in queste discipline, ma non saprei concepire la mia vita e me stesso senza mettermi alla loro ombra. Sì, anche compassione, che è un termine altissimo che spesso noi equivochiamo. La compassione come capacità di condividere, di entrare empaticamente nel mondo degli altri, e sentire quello che loro sentono, e dare qualcosa di se stessi. Si può fare questo quando ti fondi con la gente, certo. Ma si può fare anche nelle stanze e nella cosiddetta “sagrestia” di Mediobanca, o ai piani alti del grattacielo UniCredit a Milano. Si può fare persino nei palazzi del potere, della politica, dove si prendono decisioni di quelle che possono segnare più di una generazione. Sono stati anni bellissimi, lo sono ancora, e sono stati anni anche duri, scontri, alle volte trattative estenuanti, ma pure di entusiasmi e di collaborazione sorprendente. Ho imparato dal mondo che non c’è nulla, mai, di abbastanza alto che possa mettere in secondo piano gli individui. E ho imparato che la democrazia è fatta di tasselli complessi, nessuno dei quali va scartato (come raccomanda Papa Francesco), e vanno armonizzati tut- ti nell’insieme, spesso con la virtù della misura e della mediazione. Ho imparato che le competenze hanno un peso nelle decisioni, e le classi dirigenti non si improvvisano. Ma prima e innanzitutto conta avere un’idea di società, e una visione del futuro che nessun calcolo, nessuna ingegneria finanziaria può sostituire. Ed è questo il senso dell’espressione: classe dirigente. Competenze indirizzate a una visione. Mi si chiede della mia storia di banchiere e della mia biografia personale. Ho fatto tante cose. Ho avuto molte cariche che non è neppure il caso di elencare, sarebbe persino narcisistico. Tutte le volte ho accettato per senso del dovere, e ogni nomina e ogni incarico non è mai stata chiesta o sollecitata da me. Mi è stata proposta, e se c’era da dare una mano, ero in prima fila. Ho dato una mano dove ho potuto e dove era giusto: che si trattasse di aiutare i terremotati a ricostruire una vita dignitosa, che fossero in Friuli o in Irpinia, o che si trattasse di scontrarsi perché una grande banca non si dimenticasse di caricarsi sulle spalle il destino e il futuro dei risparmiatori, o per sostenere Alessandro Profumo nella creazione della principale – forse ancor oggi unica – banca paneuropea. Non tutto è andato come speravo. Errori e colpa ci sono per tutti. Me compreso. Ma mala fede mai! Da sempre, ieri come oggi, per me è così: dare sinergia a poteri e visioni, tenere il presente e il passato strettamente assieme, confidare, per quanto ragionevolmente sia possibile, in un futuro che non penalizzi troppo le nuove generazioni. Io ho visto un mondo cambiare. Sono nato in un posto dove le strade erano di terra battuta, e quando si cominciarono ad asfaltare sembrava fosse cambiato il mondo. Ho visto lavorare i maniscalchi, e non come bizzarria di un artigianato di nicchia, ma perché l’arte del maniscalco era simile a quella del meccanico di automobili oggi. Ho usato il bagno in cortile quando in casa non c’era. Ho conosciuto la cortina di ferro, quando si facevano i viaggi in macchina con mio padre, mia madre e mio fratello e si andava a visitare anche i Paesi dell’Est Europa. Ho vissuto la grande Democrazia Cristiana, e ne sono diventato un dirigente. Ho fatto le campagne elettorali, le campagne in cui dovevi essere votato, dovevano scrivere il tuo nome sulla scheda. Ho avuto soddisfazioni e ogni tanto qualche dispiacere, perché la vita è sempre un dono di Dio e un privilegio, ma dentro ci sono alle volte ingranaggi che non funzionano come dovrebbero. Mi sono sempre preso le mie responsabilità. Ma da quel paese lontano del basso Piemonte alla poltrona di Sindaco di Tortona, alla Milano finanziaria, alla Vice Presidenza dell’ICCRI, prima, di UniCredit poi fino a Mediobanca c’è un filo che guai se si spezza, guai se non è un filo sufficientemente forte da sorreggere tutti quelli che su di te fanno affidamento. I tecnicismi sono importanti ma non sono tutto. Qualcuno diceva: io vi ho disegnato il quadro, i dettagli metteteli voi, se ritenete che servano. Ma il quadro non cambia. Il quadro è tenacia e valori morali. È il non distrarsi, è il sapere che la vita ti affida un compito, un percorso da fare, ed è quello che tu devi compiere. Sono l’unico politico in carica, ad essere stato nominato Cavaliere del Lavoro nel 2004. Non c’erano precedenti. Ne sono orgoglioso, ma non lo porto in giro come un’insegna o un vessillo, ma come memoria di un compito. Ho contribuito a fondare una delle banche più importanti in Europa. Ho conosciuto uomini straordinari da cui ho imparato e che porto nel mio cuore. Sempre. Erano umili e grandi uomini. Persone abituate a esercitare un vero potere e persone abituate a vivere con fede e modestia. Preti piccoli piccoli di pievi dimenticate, suorine di clausura da prendere ad esempio e cardinali e santi uomini delle più alte gerarchie ecclesiastiche fino ai Papi. Il mio lavoro di ogni giorno – nella banca, nella Federazione Autotrasportatori Italiana, nelle concessionarie autostradali e aeroportuali, nell’attenzione che do alla politica, la quale più che una passione è una missione-; il mio lavoro è quello di non dimenticare mai il mondo da cui sono venuto e il tessuto connettivo di un Paese di cui faccio parte con orgoglio. Il mio Paese. L’Italia. Sono tenacemente patriottico. Sono figlio di un’Italia unita e solidale, che ha conosciuto la sofferenza dell’emigrazione per miseria e che ha il dovere di dare tutto quello che può, senza mai pretendere nulla in cambio, e allo stesso modo di difendere con tutte le forze una identità, una storia, dei valori di civiltà che nessuna società liquida potrà mai cancellare. Questa è la mia storia. Questo è ogni giorno il mio punto di partenza. Questo è quello che ho fatto, che fac- cio e che continuerò a fare finché il Signore vorrà.