Il rischio di un salto nel buio in Afghanistan

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Una lunga guerra, dimenticata, lontana eppure importante per molti. L’Afghanistan, con la sua storia di fierezza e invincibilità, montagne inaccessibili, intrecci di gruppi tribali e di clan, isolato ma al tempo stesso crocevia tra Oriente e Occidente. Lì il fascismo relegava in esilio professionale i diplomatici scomodi per il regime. Ora, entrando nel ventesimo anno dall’attacco alle Torri Gemelle e dall’inizio dell’intervento militare autorizzato dall’Onu per garantire la sicurezza del Paese e impedire nuovi santuari del terrorismo internazionale, alcune domande sui possibili sviluppi restano ancora senza risposta, anche se è chiara la direttrice di marcia verso il rimpatrio delle forze militari straniere.

La missione di stabilizzazione è evoluta negli anni. All’Isaf (International Security Assistance Force) è seguita nel 2015 la missione Resolute Support nel quadro Nato, tra cui circa 800 militari italiani, per la formazione e l’assistenza alle forze di sicurezza e alle istituzioni afghane nel contrasto dei gruppi fondamentalisti. Ma anche in questa seconda fase “no combat”, con un ben minor numero di uomini sul terreno, tra violenze e tensioni il contributo alla stabilizzazione del Paese è stato rilevante. Il punto è di capire se il lavoro possa considerarsi completato. L’accordo di Doha del febbraio 2020, patrocinato dagli Stati Uniti tra il governo di Kabul e i Talebani, fissa per il 1 maggio 2021 il ritiro delle forze Usa a fronte dell’impegno alla cessazione delle violenze talebane, al dialogo intra-afghano e alla liberazione di prigionieri.

L’intesa, la cui firma non ha impedito nei mesi successivi il protrarsi di scontri e attentati sanguinosi, fu molto voluta dal presidente Trump, fedele alla sua promessa elettorale di riportare a casa i militari americani, oltre che scettico sull’effettivo interesse degli Usa