Inflazione e Deflazione di Maurizio Sella

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(Presidente di Banca Sella Holding)

Tratto da “ Lessico Finanziario “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore

Il tasso di inflazione è, come noto, la variazione percentuale del livello dei prezzi rispetto all’anno precedente; al calcolo del tasso di inflazione contribuiscono diverse categorie di beni e servizi in misura diversa e proporzionata alla rilevanza che ogni tipologia ha sui consumi complessivi delle famiglie; in tal modo, il tasso di inflazione sarà maggiormente influenzato dalle variazioni delle voci che più incidono sulle spese totali (ad esempio l’energia elettrica e la benzina).

Valori positivi del tasso di inflazione (crescita dei prezzi) sono associati al fenomeno dell’inflazione mentre valori negativi (calo dei prezzi) sono associati alla deflazione ma la definizione di questi due fenomeni non può essere banalizzata, data anche la loro centralità nel sistema economico. L’inflazione, nelle parole della Banca Centrale Europea (BCE), è “un rincaro di ampia portata dei prezzi di beni e servizi, non limitato a singole voci di spesa”; un aumento dei prezzi determina una perdita del potere di acquisto della moneta pertanto, quando ciò si realizza, con una unità di moneta (un euro per noi) si riesce a comprare una quantità di beni e servizi inferiore rispetto al passato, ad indicare un calo del valore reale della moneta. Nel caso della “deflazione”, nonostante l’associazione con la contrazione dei prezzi sia intuitiva, la definizione formale del fenomeno è meno scontata e tuttora dibattuta: recentemente, infatti, il tasso di inflazione ha toccato più volte valori negativi ma gli esponenti della BCE hanno chiarito, in diverse occasioni, che per parlare di “deflazione”, oltre alla presenza di un calo dei prezzi generalizzato (quindi di ampia portata come nel caso dell’inflazione), è necessario che questo sia “persistente e tale da autoalimentarsi”.

In altre parole, per qualificare un fenomeno di deflazione non è sufficiente registrare cali dei prezzi limitati a poche categorie di beni e/o servizi o una caduta temporanea del tasso di inflazione in territorio negativo (ad esempio per via di componenti rilevanti e volatili, come i prezzi energetici) ma occorre invece che si diffonda tra famiglie ed imprese la convinzione che tale tendenza continuerà anche in futuro, con le conseguenze che saranno chiarite più avanti. Il tasso di inflazione è una grandezza cruciale nell’economia e, almeno fino alla recente crisi finanziaria, controllare la dinamica dei prezzi veniva da diversi economisti considerato sufficiente, oltre che necessario, per preservare la stabilità di un sistema finanziario (oggi si è più propensi a ritenere che siano necessarie azioni concomitanti molto più ampie, ivi compresa una vigilanza stretta sugli intermediari finanziari).

Coerentemente con questa teoria, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, la maggior parte delle Banche Centrali dei paesi avanzati (comprese la Federal Reserve degli USA e la nostra Banca Centrale Europea) ha adottato un obiettivo formale di mantenimento dell’inflazione in un certo intervallo di valori positivi; la Banca Centrale Europea ne ha addirittura fatto il suo unico obiettivo esplicito (la Federal Reserve, invece, aggiunge a questo anche un obiettivo sul mercato del lavoro, ovvero sull’occupazione). Il tasso d’inflazione può essere quindi considerato come una sorta di termometro di un sistema economico e finanziario: quando la misura è troppo elevata segnala un surriscaldamento dell’economia o la presenza di un’altra anomalia (ad esempio uno shock sui prezzi di prodotti importati, tipicamente legato alle materie prime o ad un calo del cambio); al contrario, una “temperatura” troppo bassa potrebbe indicare un sistema economico in condizioni di attività particolarmente ridotta e potenzialmente patologica, soprattutto se la dinamica dei prezzi stenta a tornare positiva.

Al pari di quanto accade per la temperatura umana che deve essere compresa tra certi valori di riferimento, viene comunemente considerato ottimale avere una crescita dei prezzi contenuta di anno in anno (nell’intorno del 2% in Area Euro), evitando in tal modo sia le situazioni in cui i prezzi crescono troppo, nelle quali tipicamente tutti gli operatori economici (sia le imprese che i lavoratori) tendono poi a fissare o chiedere importi ancor più alti per non ritrovarsi in mano somme “svalutate”, sia la situazione opposta in cui i prezzi scendono e gli operatori economici tendono a ritardare indefinitamente le spese in attesa di poter comprare a condizioni migliori, inducendo così una sorta di congelamento dell’economia ed un ulteriore calo dei prezzi per mancanza di domanda.

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Da quanto precede, è facile dedurre quanto le aspettative degli operatori economici riguardo all’andamento futuro dell’inflazione siano importanti nel determinare proprio la dinamica futura di questa variabile: un po’ come nelle profezie che si autoavverano, se tutti si aspettano che l’inflazione sarà su un certo livello, porranno in essere dei comportamenti di spesa coerenti con tale aspettativa determinando alla fine la realizzazione di quanto atteso. L’azione delle Banche Centrali oggi prende pertanto in grande considerazione le aspettative degli operatori che vengono rilevate attraverso sondaggi diretti o sono ricavate dai prezzi di alcuni titoli scambiati sul mercato (tipicamente gli strumenti derivati che riflettono una “scommessa” sul prezzo futuro di una variabile).

Questo meccanismo crea anche un legame forte tra le Banche Centrali e gli operatori economici rispetto al quale gioca un ruolo fondamentale la credibilità delle prime, aspetto che giustifica anche l’attenzione estrema che viene riposta dagli istituti di emissione agli aspetti di comunicazione: la credibilità è infatti un aspetto che si costruisce a poco a poco nel tempo ma può essere poi distrutta molto rapidamente. Questo spiega anche la scelta che è stata fatta all’atto della creazione della Banca Centrale Europea: la Bundesbank (la Banca Centrale tedesca) era sicuramente tra tutti gli istituti dell’Area comune quella con la maggiore credibilità e vocazione storica alla lotta contro l’inflazione, oltre ad essere stata tra le prime Banche Centrali indipendenti dal Governo: l’esperienza dell’iperinflazione in Germania dopo il primo conflitto mondiale (nel 1923 il Marco si era deprezzato a tal punto da renderne necessari ben 4.200 miliardi per acquistare un solo dollaro USA), ha sicuramente lasciato nella popolazione tedesca un segno talmente profondo da far sì che l’azione della Bundesbank negli anni successivi sia stata sempre molto attenta al controllo dell’inflazione guadagnando una fama internazionale in tal senso e conferendo alla valuta nazionale un’importante solidità. Questo retaggio storico è spesso utile anche per interpretare la dialettica interna tra i membri del Consiglio Direttivo della BCE e prevedere l’evoluzione futura delle azioni dell’istituto centrale.

Venendo all’Italia, il nostro paese rispetto all’inflazione ha invece una storia piuttosto misera: il periodo pre euro è costellato di molti momenti di inflazione a doppia cifra (tra il 1980 e il 1994 mediamente è stata del 9,6% annuo, rispetto ad esempio al 3,2% medio della Germania e al 6,1% della Francia); la conseguente perdita di valore della nostra moneta rispetto alle altre valute, se da un lato sosteneva illusoriamente le esportazioni delle nostre imprese, dall’altro le condannava ad una competizione basata prevalentemente sul prezzo e poco su innovazione e qualità, con effetti di medio termine molto negativi. Nel successivo periodo della “convergenza” verso l’euro, tra il 1995 ed il 2001, l’inflazione italiana è rimasta su livelli molto più bassi (mediamente 2,9% annuo), pur restando doppia rispetto a quella di Francia e Germania; un contributo decisivo a questa moderazione dell’inflazione lo hanno dato, comunque, una serie di riforme intraprese già negli anni precedenti, prima tra tutte l’abolizione della scala mobile del luglio 1992. La perdita di potere d’acquisto superiore a quella del resto d’Europa ci ha caratterizzato anche dopo l’introduzione dell’euro, ivi compresi gli anni della grande crisi, fino al 2013: va detto comunque che, nonostante la percezione comune fosse quella di prezzi raddoppiati per “colpa” della moneta unica, il valore medio dell’inflazione tra il 2002 e il 2012 è rimasto intorno al 2,2-2,3%, “appena” mezzo punto percentuale sopra le medie di Francia e Germania.

Le cose sono cambiate a partire dal 2013, in conseguenza delle politiche di aggiustamento che si sono rese necessarie nei paesi più colpiti dalla crisi del debito sovrano: a partire da quell’anno, infatti, le misure di inflazione relative all’Italia sono state tendenzialmente più basse di quelle degli altri paesi dell’Area (grafico successivo).

Come noto, le politiche di “austerity” implementate dal nostro paese avevano la finalità di ridurre gli squilibri debitori accumulati negli anni pre-crisi e riassorbire il divario di competitività che si era realizzato negli anni tra i vari paesi; infatti, la “svalutazione interna”, consistente in un calo del livello dei prezzi e dei salari di un paese, consente di ovviare all’impossibilità di attuare recuperi di competitività attraverso svalutazioni del cambio. In conclusione, al di là delle scuole di pensiero, l’inflazione è un indicatore fondamentale per comprendere lo stato di un sistema socio-economico: un’inflazione sana è quasi sempre indice di un confronto equilibrato tra la domanda e l’offerta di beni e servizi e soprattutto di politiche (sia fiscali che monetarie) rigorose e credibili, attente ad evitare quelle distorsioni ed illusioni ottiche di breve termine che distorcono la competizione e la normale dialettica tra gli operatori e pregiudicano irrimediabilmente la futura sostenibilità di un sistema.