Jean Pierre Mustier Amministratore Delegato di UniCredit

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Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore

Una cosa posso dire con certezza: l’idea di lavorare nel mondo della finanza e delle grandi banche non era nei miei progetti quando studiavo al Liceo Blaise Pascal di Clermont Ferrand, capoluogo dell’Alvernia, dove sono nato nel gennaio del 1961. Per l’esattezza sono nato a Chamalieres, che fa parte di quella che oggi potremmo definire la grande municipalità di Clermont Ferrand. Una realtà della Francia bella e profonda, il Puy de Dome e le montagne del Massiccio Centrale e grandi industrie che hanno portato l’immagine della Francia nel mondo. A onor del vero, Chamalieres qualche legame importante con il mondo delle monete certamente lo ha, considerato che dal 1923 ospita uno stabilimento della Banca di Francia che ha stampato per decenni prima le banconote in franchi e oggi in euro. Ma in realtà ero soprattutto affascinato dalla matematica pura, dalla fisica, e più in generale dalle cosiddette materie scientifiche. Interessi, questi, che ho sempre coltivato insieme ad altre passioni all’apparenza meno impegnative come il rugby. Uno sport che ho giocato e che ho sempre seguito. E ancora oggi il fatto che la squadra di Clermont Ferrand – la ASM Clermont Auvergne – sia attualmente campione di Francia mi rende sportivamente felice. Siamo i campioni di Francia e – insieme solo ad un altro club – l’unica squadra che, dopo aver raggiunto la massima divisione quasi un secolo fa, nel 1925, non è mai stata retrocessa. Lo dico con una punta d’orgoglio anche perché il rugby è una buona metafora della vita: serve preparazione, tecnica, talento e spirito di squadra. E, soprattutto, la voglia costante di darsi traguardi ambiziosi. Ho sempre pensato che prepararsi a sfide importanti e sempre più impegnative, cercando di migliorarsi e di raggiungere l’eccellenza, sia una idea da seguire con convinzione. Insieme alla disponibilità, e quindi alla volontà, di uscire da quella che oggi chiameremmo la propria “comfort zone”. Quando hai raggiunto un traguardo, quando hai acquisito e maturato tutte le capacità per gestire al meglio una situazione, allora è il momento di darsi obiettivi nuovi e di alzare ancora la propria asticella di riferimento. E così, dopo il liceo di Clermont Ferrand, eccomi a Versailles, all’Istituto Sainte Genevieve (affettuosamente soprannominato Ginette) a preparare le prove di ammissione ad una scuola di alta formazione che rappresentava da tempo il mio obiettivo: l’Ecole Polytechnique, una realtà che ogni anno, con prove pubbliche, seleziona ed ammette ai suoi corsi 310 studenti. Una scuola che ancora oggi forma professionalità con competenze molto importanti in campo matematico e scientifico. Una scuola militare, che vede il primo anno dedicato al servizio nelle Forze Armate francesi. E qui, l’idea di cimentarsi con prove ed esperienze che aiutino a superare i nostri limiti del momento mi porta a sceglie- re di essere paracadutista e poi istruttore di paracadutisti. Nel giro di un anno oltre 600 lanci da 4.000 metri di altezza. E quando devi scendere verso terra per 300 metri prima di aprire il paracadute impari ad avere un pie- no controllo dello stress e più in generale di te stesso. Una buona scuola di vita, una scuola completa che richiede forma fisica, competenza, perfetto controllo di sé, delle tecniche e degli strumenti. Una esperienza che ti insegna quanto sia importante il rispetto delle regole, una organizzazione senza punti deboli, la cura dei particolari, una attenta gestione dei rischi che è necessario prendere, la possibilità di riporre una fiducia motivata dall’addestramento e dalla disciplina nei tuoi commilitoni. E ti insegna anche che esistono cose – poche ma fondamentali – che non si possono delegare. Nessun paracadutista lascerà mai a qualcun altro la responsabilità di preparare il proprio paracadute. Tutti insegnamenti che poi sarebbero tornati molto utili nelle attività future. Dopo il servizio militare, gli studi al Politecnico e poi, dopo la laurea, un’ulteriore, intensa e straordinaria fase di apprendimento: l’Ecole des Mines di Parigi. Un centro di studi superiori focalizzato sulle tecnologie, la trasformazione e l’uso sofisticato delle materie prime, nonché sulla gestione di gruppi industriali complessi e di grande dimensione. Fra i docenti di cui ho avuto l’opportunità di seguire i corsi, il futuro Premio Nobel per l’economia Maurice Allais, che ufficialmente in pensione continuava ad insegnare. Noto ad un pubblico più vasto per la famosa metafora del “viaggiatore di Calais”, pochissimi an- ni dopo la mia sessione di laurea all’Ecole des Mines, Maurice Allais, fisico ed economista, riceverà nel 1988 il Premio Nobel per i suoi lavori sulla teoria dei mercati e l’utilizzo efficiente delle risorse. Al termine dell’Ecole des Mines, decisi di accettare per sei mesi un’esperienza sul campo, anziché in uno studio di ingegneria e progettazione. Passai sei mesi in una miniera di platino in Sudafrica, dove imparai anche a scavare buchi nelle pareti della miniera con il martello pneumatico per alloggiarvi poi le cariche di dinamite. Tornato in Francia, la finanza sembrava un mondo abbastanza lontano dagli interessi che avevo coltivato e dai miei studi. Così, senza esagerazioni, posso dire che entrai in questo mondo quasi per caso. In realtà parlare di casualità è improprio: il fatto è che in quegli anni – la seconda metà degli anni ’80 – il mondo delle banche e della finanza vive una forte trasformazione e, sulla spinta americana, ai cambiamenti in essere viene impressa una forte accelerazione. Nel 1986, ad esempio, in Francia nasce il MONEP, il mercato a termine degli strumenti finanziari, sull’esempio di quanto già esiste negli Stati Uniti e in Inghilterra. Con l’esplosio- ne di nuovi strumenti finanziari e dei derivati, le banche hanno bisogno di figure e professionalità per loro inedite: delle menti matematiche capaci di costruire nuovi modelli operativi e nuovi prodotti. Così nel 1987 dico di sì alla proposta che mi viene da una banca importante come la Société Générale. Anche qui, si tratta di cogliere una sfida diversa, di uscire dalla “comfort zone” di attività più tradizionalmente legate alla mia formazione e cimentarsi con qualcosa di veramente innovativo, in senso tecnico quasi rivoluzionario. Nella Société Générale, che proprio in quell’anno viene privatizzata, ho lavorato per oltre vent’anni. Quando ho iniziato ero il numero due di una nuova sezione dedicata ai derivati. Eravamo due, un numero tre, all’inizio, non esisteva. Presto sono stato mandato negli Stati Uniti, a Filadelfia, a specializzarmi come trader. Poi sono venuti il Giappone, l’Asia, e poi nuove sfide e responsabilità sempre più ampie. Sono stato Presidente e Amministratore Delegato di SG Corporate & Investment Banking, poi Presidente e Amministratore Delegato di SG Gestion e Société Générale Asset Management. Ho lavorato per creare un protagonista mondiale dell’asset management come Amundi, nato da una fusione tra le attività che avevano in questo campo Crédit Agricole e Société Générale. Sono uscito da SocGen dopo aver lavorato con grandissima intensità per fronteggiare e gestire i gravi problemi causati alla banca dalla frode di un trader. Superata l’emergenza, ho pensato che fosse la cosa giusta da fare. Quella esperienza, ma non solo, mi ha insegnato che spesso la vita professionale non è una traiettoria lineare, e che bisogna saper affrontare momenti duri e difficili con lucidità e senso di responsabilità, senza mai venire meno ai propri valori. Valori che danno forma e sostanza al proprio codice di condotta, un codice morale che deve essere solido, limpido, e chiaro: per te, per chi lavora con te, per chi ti osserva dall’esterno. In questo modo anche le esperienze più amare possono aiutarti a crescere e a renderti più forte. Sia in termini personali, ma anche dal punto di vista professionale. Ad esempio, impari sulla tua pelle che la questione dei rischi operativi di strutture complesse assume un peso sempre più importante, che non può essere sottovalutata. E porti questa esperienza nel tuo bagaglio professionale e anche personale, nelle attività e nelle esperienze successive. Dopo SocGen, per un periodo non troppo breve e non troppo lungo mi sono dedicato ad attività di consulenza, ma soprattutto ad iniziative di solidarietà capaci di durare nel tempo perché strutturate su basi solide e su modelli funzionanti. È il modello della Social Impact Bank, di una realtà che consente l’accesso al piccolo credito per persone che non sono in condizione di rivolgersi ai canali tradizionali e che possono avere necessità di breve termine o esigenze di finanziamento per piccole attività. Così come continuo a dedicare tempo e attenzione alla formazione: dalla realizzazione di un liceo bilingue, francoinglese, a Londra all’educazione finanziaria di base in realtà meno favorite, come i ragazzi con meno opportunità di alcune zone di East London. Una parte delle risorse che insieme ad altre persone sono riuscito a raccogliere è stata destinata alla costruzione di una scuola. Qualche tempo dopo ho potuto vedere un gruppo di bambini che giocavano allegramente in una struttura che, senza la nostra attività, non ci sarebbe probabilmente mai stata. È stato uno dei giorni più belli della mia vita e mi piacerebbe che molte altre persone provassero questa emozione. Per questo, nella nostra banca, stiamo lavorando ad un progetto importante di social bank, che sarà presto operativa e che potrà intervenire nelle realtà che meglio conosciamo. So che questo tipo di impegno è fortemente legato alla cultura e all’esperienza della banca e soprattutto delle persone che ci lavorano. In UniCredit ho iniziato la mia prima esperienza nel 2011 come Vice Direttore Generale e responsabile della Divisione Corporate & Investment Banking. In meno di quattro anni ho portato a termine il compito di riorganizzazione e di rilancio che mi era stato affidato e così, dal gennaio del 2015 mi sono dedicato, come Socio, alla crescita internazionale di Tikehau Capital contribuendo in maniera diretta a molti business in ambito di private debt e private equity, nonché alle attività di investimento in partecipazioni azionarie. Una realtà che ho abbandonato con qualche rimpianto – e della quale ho venduto ogni quota per evitare qualsiasi potenziale rischio di conflitto – ma senza alcuna esitazione. All’inizio dell’estate del 2016 ho ricevuto la proposta di guidare UniCredit come Amministratore Delegato del gruppo: ancora una volta una sfida non facile, che dopo aver presentato al Consiglio la mia strategia e le azioni necessarie per il rilancio della banca, ho accettato con grande entusiasmo. È stato, innanzitutto, un ritorno a casa, in una realtà che conoscevo bene e di cui mi erano chiari problemi e potenzialità. Ho iniziato così un’esperienza per molti versi totalizzante, che faccio con grande passione, con un impegno personale totale ma anche con grandissima soddisfazione. In questo anno ho spesso pensato a mio padre che a Clermont Ferrand era medico, specializzato in ostetricia. Nella sua vita professionale ha fatto nascere oltre 40mila bambini, in ogni giorno dell’anno. Pochissime vacanze e sempre a pochi chilometri da dove lavorava, perché mai avrebbe abbandonato una sua paziente, per nessuna ragione. Noi dobbiamo avere nei confronti dei nostri clienti la stessa attenzione. Allo stesso modo, se si chiede il massimo di impegno agli altri, a chi lavora nel gruppo, bisogna partire da sé stessi, senza riserve. E dare il senso che si crede pienamente in quello che si fa. C’è un detto inglese che mi piace molto: “to do well you need to do good” che potremmo tradurre con “per fare bene bisogna fare le cose giuste”. Credo sia una grande verità che non dobbiamo mai perdere di vista, così come sappiamo che la finanza si muove alla velocità della luce mentre le aziende e il corpo sociale evolvono secondo la vita delle persone. Il nostro piano di trasformazione e rilancio della banca è una maratona che si concluderà alla fine del 2019: le prime fasi sono state di grande soddisfazione, ma si tratta appunto di una maratona e abbiamo fatto solo i primi chilometri. Vogliamo fare le cose con grande serietà e impegno, ma non vogliamo prenderci troppo sul serio. Per questo, invece che usare i consueti nomi roboanti che si usano nel mondo della finanza, abbiamo usato come nome in codice dell’aumento di capitale da 13 miliardi, che è stato un grande successo, quello di Elkette, una piccola alce di peluche che è presto diventata il nostro portafortuna.