Le lezioni di Livorno

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Per la sinistra italiana Livorno è certamente un luogo sovrabbondante di simboli e immaginario, luoghi della tradizione e dell’anima. Ma le elezioni non si vincono o si perdono (solo) grazie ai simboli e alle tradizioni. E la larga affermazione a Livorno di Luca Salvetti e della coalizione costruita intorno al Partito Democratico merita una riflessione, in cui ritrovare le tracce di alcuni degli interrogativi di portata nazionale che ci poniamo spesso.

Primo interrogativo: “Gli elettori del Movimento Cinque Stelle sono di sinistra o di destra?” (a cui normalmente segue l’altro e ben più ingombrante “Ma allora il Pd dovrebbe dialogare con il Movimento Cinque Stelle?”). L’esperienza di Livorno ci consegna una lezione molto chiara, certamente limitata ad una città ma in fondo non così distante dagli insegnamenti che si possono trarre dal recente voto europeo. Tranne una porzione molto limitata ed ideologizzata (quella dei vertici di partito, per intenderci) gli elettori che scelgono Movimento Cinque Stelle si rivelano particolarmente laici e mobili.

E dunque aperti a cambiare valutazione sulla base dei risultati concreti raggiunti (o non raggiunti) dai loro rappresentanti. Dopo la vittoria di Nogarin nel 2014 e prima di quella della Raggi nel 2016, il Movimento Cinque Stelle aveva investito un’enorme quantità di risorse politiche e propagandistiche su Livorno, trasformandola nella vetrina del “grillismo di governo” e nel luogo portabandiera della propria capacità di scalzare il Pd dai suoi insediamenti storici.

Eppure non è bastato il gigantesco investimento di Casaleggio e soci per convincere i livornesi a dare una seconda chance ai Cinque Stelle, dopo i fallimenti amministrativi della giunta Nogarin (amplificati dall’arroganza e dalla capacità divisiva mostrate dal sindaco). La sconfitta M5s è maturata ben prima del ballottaggio di domenica, con un primo turno che già due settimane fa ha visto il movimento raccogliere addirittura meno voti di quelli del 2014: dopo cinque anni di amministrazione monocolore e dopo una gestione estremamente centralizzata di tutte le decisioni amministrative, i livornesi hanno abbandonato il Movimento Cinque Stelle e scelto di guardarsi intorno per offerte politiche diverse da quelle su cui avevano scommesso nel 2014.

Significa forse che il voto grillino non è di destra né di sinistra? No, significa (almeno a giudicare da quanto si è visto a Livorno) che il voto che è andato al Movimento Cinque Stelle può essere facilmente insediato da una proposta politica alternativa che scommetta sulla concretezza delle proprie soluzioni e sulla denuncia del malgoverno grillino. All’alternativa un po’ scolastica tra il dialogo con M5s o la sua demonizzazione, l’indizio livornese suggerisce la strada più pragmatica di una competizione in campo aperto per la conquista di quell’elettorato (laico e mobile) che può scommettere sui Cinque Stelle senza per questo legarsi mani e piedi ai destini dell’impresa di Casaleggio.

Secondo interrogativo: “La Lega di Salvini si può battere?”. A Livorno la destra si è presentata con un volto particolarmente aggressivo: candidato espresso da Fratelli d’Italia (nella prefigurazione di quell’alleanza nazionalista a cui si preparano Salvini e la Meloni per il dopo-Berlusconi), toni battaglieri su immigrazione e sicurezza, racconto di una città popolare abbandonata dalla sinistra, denuncia di complotti dei “poteri forti” ovunque (con l’aggiunta dell’immancabile Soros, che secondo il candidato della destra avrebbe allungato le sue mani da usuraio profittatore anche sulla città portuale) etc. Eppure questa destra, pur spinta dal vento in poppa di cui gode Salvini in questa fase storica, è stata sonoramente sconfitta da un centrosinistra ampio che ha risposto alla “trappola della paura” parlando di lavoro e crescita, tolleranza e sicurezza, dialogo e rottura dell’isolamento a cui Nogarin aveva condannato la città. Anche qui nessuna pretesa di estendere il caso di Livorno al di fuori dei confini naturali di questa città di mare, ma forse qualche indizio su come la bolla salviniana possa essere sgonfiata.

Terzo interrogativo: “E allora il Pd?”. Qui vale la pena ricordare che tra le ragioni della durissima sconfitta del 2014 vi fu anche il peso di una nostra pretesa di autosufficienza che non era tanto la declinazione locale della “vocazione maggioritaria” quanto l’eredità di una tradizione (questa volta sì) che aveva visto il principale partito della sinistra italiana governare sempre in solitudine per decenni, condannandosi a mutilare la propria capacità di pensare la città e di comprenderne il cambiamento e finendo per essere vissuto come una forza arrogante e distante.

Il PD di Livorno è ripartito da quella sconfitta: accogliendone gli insegnamenti nel segno dell’umiltà (e da qui il superamento della pretesa di autosufficienza), lavorando per ricostruire il dialogo con le parti più innovative della città (e da qui un impegno di anni per parlare con quell’ampia sinistra civica, non necessariamente radicale né ideologizzata, capace di produrre buone idee di governo locale), puntando su un candidato civico come massimo segno di discontinuità rispetto ad un passato a cui non si può e non si vuole tornare. Perché le sconfitte servono anche a questo: imparare la lezione e ripartire, puntando ovviamente a vincere al prossimo giro.