Mario Nava Presidente Consob

0
137

Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore

Presidente Consob 1
Ex Direttore presso la Commissione Europea per la Sorveglianza del sistema finanziario e gestione delle crisi 2

Intervistato da Giulia Bertezzolo, funzionario della Commissione Europea
(Unità per la risoluzione e gestione delle crisi)

1 A fine dicembre 2017 Mario Nava è stato nominato Presidente della Consob (NdA).
2 Le informazioni e opinioni espresse in questo scritto sono esclusiva- mente degli autori e non riflettono necessariamente la posizione ufficiale dell’Unione Europea o delle istituzioni per cui hanno lavorato o lavorano. La responsabilità di tali informazioni e opinioni rimane quindi esclusivamente degli autori.

Il suo titolo professionale intimidisce un po’ e non è facile da capire. Cosa fa esattamente?

Lavoro alla Commissione Europea e mi occupo di regolazione finanziaria: per cinque anni sono stato il Direttore responsabile per le regole prudenziali (ad esempio, di capitale e liquidità) che le banche e le assicurazioni devono rispettare in regime normale. Da oltre un anno, sono il responsabile per la sorveglianza del sistema finanziario e la gestione delle crisi finanziarie in Europa, compresa l’emanazione e l’applicazione delle norme relative alle banche in difficoltà, ossia le norme di risoluzione, ricapitalizzazione preventiva e liquidazione. In Italia queste norme sono state applicate recentemente a delle banche in Veneto e in Toscana.

E quando le è venuta l’idea di occuparsi di regolazione finanziaria?

Non da bambino, certo! Da bambino non sognavo di fare il regolatore o l’alto funzionario in Commissione Europea! Come tanti altri, però, avevo sogni enormi tipo fare il Papa o il capitano dell’Inter, che allora era il bellissimo, bravissimo e indimenticabile Giacinto Facchetti, o il Presidente della Repubblica o “quel signore che mette la firma su tutte le mille lire”. Mi attiravano i mestieri di grandissima responsabilità, dove la sostanza e la forma delle opinioni espresse, scritte o orali, hanno un grande peso.
In questo senso essere diventato responsabile della regolazione finanziaria a livello europeo e gestire i processi di crisi corrisponde abbastanza ai miei sogni di bambino perché lavoro in un settore che ha un forte impatto sulla vita di tutti i giorni, anche se le persone spesso non se ne rendono conto.

Cos’ha studiato, che esperienze ha fatto per arrivare dove è?

Direi che il mio incarico attuale è il risultato di due passioni convergenti: quella per lo studio e quella per l’Europa intesa come un progetto di pace e di benessere che migliora la qualità della vita dei cittadini. Lo studio è sempre stata una mia grande passione: mi piaceva soprattutto studiare le cose in cui riuscivo meno bene. Ho sempre sentito l’esigenza di completare le mie conoscenze. Pur essendo stato da sempre molto predisposto per la matematica, ho deciso scientemente di iscrivermi al liceo classico per imparare meglio altre cose, per le quali ero meno portato. Una volta imparato il greco e latino, ma incapace di dire alcuna parola in francese o inglese, ho deciso che dovevo fare esperienze all’estero e imparare le lingue. Mi sono poi laureato in Economia alla Bocconi (Milano) con una tesi in matematica finanziaria. In questo periodo ho fatto un anno di Erasmus, cominciando a Parigi l’1 settembre 1987 (proprio il primo anno che il programma Erasmus esisteva). Un’esperienza fantastica che mi ha aperto gli occhi su altri modi di studiare, di imparare, di vivere. Un mese dopo la laurea, già lavoravo alla Direzione Centrale di una primaria banca italiana, che allora s’identificava con una sigla telegrafica […]. La passione per lo studio ha però rapidamente e di nuovo preso il sopravven- to e grazie a una generosa borsa di studio del Governo Italiano, ho “abbandonato il posto fisso in banca” (cosa già all’epoca vista da molti come un chiaro segno di pazzia) per frequentare prima un Master all’Université Catholique de Louvain in Belgio e poi un Dottorato (Ph.D.) alla London School of Economics (LSE) in Finanza Pubblica, concluso felicemente con una tesi su un modello teorico di tassazione ottimale, in presenza di rischio di evasione. Quelli del dottorato sono stati anni bellissimi dove mi si sono aperti gli orizzonti: Milano e la Bocconi non erano certo ambienti provinciali, ma i colori, le facce, le opportunità, le sfide che offrivano Londra e la LSE in quegli anni erano qualcosa di unico. Alla LSE, non solo studiavo per il dottorato, ma avevo anche iniziato a insegnare per fare carriera accademica. Mi piaceva moltissimo insegnare, mi piaceva imparare con gli studenti e mi piaceva il contatto con loro. Insegnare in una classe di 200 studentesse e studenti che venivano da ogni angolo del mondo era davvero stimolante. La LSE aveva e ha una reputazione globale che le ha sempre permesso di vincere appalti di insegnamento in tutto il mondo: ho insegnato a Buenos Aires, a Mendoza, ma soprattutto, nel 1993, a Pietroburgo. Con la caduta dell’Unione Sovietica, la LSE vinse un appalto pubblico europeo per gestire una scuola estiva di “Economia di Mercato” a Mosca e Pietroburgo (che aveva cambiato nome da Leningrado sei mesi prima e che gli studenti chiamavano Leningrado in russo e Pietroburgo in inglese!) ed accettai di andarci ad insegnare.

La Russia nel ’93 doveva essere particolare, com’era insegnarci? Che tipo di rapporto c’era con gli studenti e con il contesto?

Se dovessi descrivere cos’erano quegli anni in Russia, per un ragazzino che era appena arrivato da Milano via Londra, mi ci vorrebbero mille pagine. Mi limiterò a dire che i due anni passati tra Londra e la Russia sono stati la mia svolta personale e professionale. Ho capito che l’accademia era bella, bellissima, ma volevo fare di più, volevo fare il policy maker e cambiare l’ordine delle cose. Un episodio che mi piace ricordare forse illustra meglio questa voglia di passar dalla teoria alla pratica. Il primo giorno durante la prima lezione a 300 studenti silenziosi e molto attenti cercai di far loro capire che una delle differenze fondamentali tra l’economia di mercato e quella pianificata era che i prezzi nell’economia di mercato sono il risultato del gioco della domanda e dell’offerta e delle scelte dei consumatori e dei produttori e non sono fissati da un’autorità centrale come invece nell’economia pianificata. In teoria sembravo averli convinti, ma la pratica, in un posto dove la quantità di pane e di caffè a cui ciascuno aveva accesso dipendeva dal numero delle persone e non dalla volontà o meno di acquistarlo, e dove i prezzi erano stati liberalizzati solo qualche mese prima, era un po’ diversa. Finita la lezione, andai al bar della Facoltà di Economia per prendere un caffè e scoprii che il caffè costava 10 copechi, ma che bi- sognava anche lasciare 2 rubli (pari a 200 copechi) come cauzione per la tazza di porcellana per il caffè. Decisi che quello era un ottimo terreno per un esperimento economico. Il giorno dopo, in classe, divisi gli studenti in due metà: una metà (circa 150 studenti) dopo aver preso il caffè doveva tenersi la tazza e non restituirla. L’altra metà doveva invece restituirla normalmente, ma poiché anche loro facevano parte dell’esperimento non doveva- no dire nulla al bar. Gli studenti, un po’ per disciplina (che nella Russia in quegli anni non mancava di certo) e un po’ per curiosità di vedere cosa sarebbe successo, rispettarono il patto. Alla fine della giornata il barista si trovò con 150 tazze in meno e si rese conto che gli mancavano le tazze per aprire il giorno dopo. In qualche modo ottenne dal bar centrale dell’università 150 tazze addizionali. Chiesi agli studenti di continuare nell’esperimento. Alla fine del secondo giorno il barista si ritrovò ancora con 150 tazze in meno. In due giorni perse le 300 tazze che l’economia pianificata gli aveva assegnato (300 studenti = 300 tazze). Le richiese al bar centrale che gliele diede, ma gli impose di alzare la cauzione a 3 rubli per il giorno dopo. A quel punto il gioco era fatto: suggerii agli studenti di restituire immediatamente le tazze (e fare un profitto di 1 rublo per tazza) e ai più intraprendenti di andar a prendere un altro caffè alla Facoltà di Ingegneria poco lontano (dove la cauzione era rimasta di due rubli) e restituire la tazza ad Economia (dove la cauzione era di tre rubli), cosi da fare un altro rublo di profitto. Nei pochi minuti della pausa caffè il barista si ritrovò inondato di tazze e senza soldi. Inutile dire che, il terzo giorno il barista di Economia chiese al bar centrale di poter abbassare di nuovo il prezzo della cauzione della tazza a due rubli, perché si ritrovava senza soldi, e tutto rientrò nell’ordine. Con un semplice esperimento, avevo mostrato agli studenti che i prezzi fissi non sono efficienti, che i prezzi devono muoversi in una società dove le persone si possono muovere e che l’arbitraggio (ossia la possibilità di scelta) li equilibra. La voglia di fare e di cambiare, legata alla passione per l’Europa, è scoppiata in modo dirompente grazie all’esperienza in Russia, durante la quale ho avuto la conferma di come l’Europa fosse la miglior piattaforma per il futuro che potessimo avere. Ho così deciso che dovevo partecipare in prima persona a questo progetto bellissimo, iscrivermi e vincere un concorso per andare a lavorare a Bruxelles.

Cosa la attirava dell’Europa e perché aveva questa passione così forte?

Mi attirava la possibilità di cambiare in meglio la vita delle persone e avevo percepito che tutto ciò sarebbe stato possibile: l’Europa stava cambiando. Il 1992 aveva portato l’Atto Unico Europeo con le sue quattro libertà di circolazione dei beni, delle persone, dei capitali e dei servizi: una vera rivoluzione. Per me che avevo fatto l’Erasmus nel 1987, quando l’Europa era incomparabile a quella attuale, quando non c’era il mercato unico, ma c’erano i monopoli nazionali, quando in Europa si girava in treno, non con gli aerei, non si poteva telefonare a Nizza da Sanremo perché le tariffe erano altissime, bisognava cambiare le lire in altre valute pagando i co- sti di cambio e spesso, secondo l’importo, facendo una dichiarazione statistica alla Banca d’Italia. Avevo capito che quello che teneva bloccata la crescita economica in Europa non era la tecnologia, ma la burocrazia, i mono- poli, i nazionalismi, le rendite di posizioni ingiustificate. Una telefonata da Sanremo a Nizza (50 km) costava 100 volte di più che una telefonata da Sanremo a Palermo (1.500) km! Perché? Non c’era ragione economica o tecnologica! Era solo il risultato di privilegi nazionali che permettevano di abusare dei cittadini. Ciò andava cambiato. La Russia del ’92-’93 mi aveva confermato che non c’è ricchezza senza commercio e scambio. Il progetto europeo, che mirava a dare ai suoi cittadini la libertà di godere dello spazio unico europeo senza i vincoli arbitrari imposti dalle divisioni nazionali, era il mio progetto, la mia missione. Il tempo mi ha dato ragione: i costi dei viaggi, delle telecomunicazioni, dei servizi finanziari e non sono crollati non tanto per l’avanzamento tecnologico, quanto piuttosto per l’eliminazione delle rendite di posizione associate ai monopoli nazionali.

Quando ha iniziato la sua carriera in Commissione e quali incarichi ha ricoperto?

Sono entrato in Commissione nel settembre 1994, a meno di 28 anni. Ho lavorato prima alla Direzione Generale della Fiscalità e poi alla Direzione Generale Bilancio, entrambe affini ai miei studi di dottorato. Fin dai primi anni di carriera mi sono reso conto di quanto l’attenzione verso i tanti e diversi punti di vista rappresentati nel Parlamento europeo e nel Consiglio degli Stati membri fosse importante nella formazione delle politiche comunitarie, ma soprattutto nel loro successo. Erano anni di grande fermento e cambiamenti: quando iniziai a lavorare in Commissione europea gli Stati Membri erano solo dodici. Sono poi diventati quindici nel 1995 e a seguire c’è stato il lungo decennio di preparazione dell’allargamento a 25 Paesi del 2004, che ha segnato la fine della guerra fredda e l’affermarsi dell’Europa come area di pace e prosperità. Nel 2000 sono entrato nel Gabinetto di Mario Monti, allora Commissario per la concorrenza, e nel 2001 nel Gruppo dei Consiglieri Politici di Romano Prodi, allora Presidente della Commissione Europea, con responsabilità per le questioni economiche e finanziarie. Gli anni dei gabinetti sono stati anni fantastici, le giornate di lavoro erano senza sosta e senza orari e con pochi, ma incredibilmente bravi colleghi. Dopo quell’esperienza tutti o quasi hanno assunto posizioni di responsabilità importanti: due sono diventati Ministri, uno Primo Ministro, due Direttori Generali in Commissione, un altro Presidente di un’autorità nazionale. Lavorare e conoscere da vicino il Commissario e il Presidente della Commissione, ma anche tanti altri Commissari di quegli anni è stato per l’allora giovane funzionario che ero, un privilegio enorme e indimenticabile e soprattutto un’opportunità di crescita professionale unica. Alla fine di questo periodo, e dopo dieci anni di Com- missione, ho assunto le prime responsabilità manageriali alla Direzione Generale del Mercato Interno, prima in materia di mercati finanziari e poi in materia di banche e assicurazioni. In parallelo con il lavoro in Commissione, ho sempre tenuto un legame con l’università dove insegno tuttora Economia dell’integrazione europea. Trovo che insegnare all’università davanti a studenti esigenti e vogliosi di imparare mi aiuti a essere ancora più chiaro e preciso nella mia attività quotidiana, specialmente in un’area come la finanza dove troppo spesso si sente usare ger- go specialistico incomprensibile alla maggior parte delle persone.

I mercati finanziari europei, ma anche mondiali, negli ultimi tredici anni sono stati abbastanza turbolenti, come ha vissuto quel periodo?

I primi anni di lavoro nel settore finanziario sono stati molto tranquilli. L’economia era in espansione, i mercati crescevano, le società s’indebitavano, ma non eccessivamente, tutto sembrava sostenibile. Anche la narrativa sia in Europa che nel resto del mondo era molto accomodante: non serve regolare eccessivamente, i mercati si autoregolano, il rischio è ormai diffuso e non più concentrato, i prezzi delle case e degli altri beni non possono scendere e quindi tout va bien Madame la Marquise. Poi arriva, improvvisa, e a sorpresa per molti (ma non per tutti perché svariati economisti e centri di ricerca avevano stigmatizzato l’accumulazione dei rischi), la crisi finanziaria. Esattamente dieci anni fa: 9 agosto 2007, BNP Paribas sospende il rimborso di tre suoi fondi a causa dell’eccessiva esposizione ai mutui subprime. Mi ricordo che quel giorno eravamo nell’Alta Val di Susa con la famiglia ed eravamo appena scesi da una lunga camminata fino al Monte Tabor: leggendo i giornali su internet, la sera stessa e i giorni successivi capisco che era cambiato qualcosa. Chiamo l’allora mio Direttore, David Wright, funzionario inglese di eccezionale intelligenza e profondamente europeista, e decidiamo di rientrare a Bruxelles prima del previsto, perché la tensione sui mercati si stava propagando. In qualche mese la dottrina dell’evitare l’eccesso di regolazione era sparita e aveva lasciato il posto a quella di individuare le aree di rischio sulle quali agire. Nel 2008, arriva il fallimento disordinato della Banca Lehmann Brothers e la cosa forse più pericolosa succede nel 2010-2011, quando la crisi finan- ziaria in Europa subisce una mutazione genetica: da crisi della finanza privata diventa crisi della finanza pubblica soprattutto nei paesi periferici dell’Europa, con un impatto devastante sui deficit, sui debiti pubblici, sulle borse, sui tassi e sul celeberrimo spread di ciascun paese con i titoli della Germania. I titoli di Stato di molti paesi europei non erano più considerati titoli a rischio zero (cosiddetti safe assets). L’Italia è stata fra i paesi più colpiti dalla crisi. Pochi ricordano che nei giorni immediatamente precedenti all’insediamento del Governo Monti nel novembre 2011, la curva dei tassi italiana era invertita: i tassi a breve termine erano più alti di quelli a lungo termine, il mercato stava quindi prezzando un possibile default. Molti ovviamente ricordano che lo spread dei tassi Italia-Germania aveva raggiunto i 560 punti base (mentre era pari a meno di 20 punti base nel 2008) mettendo l’Unione monetaria sotto tensione.

Come ha reagito la Commissione Europea alla crisi?
Cosa ricorda di più dell’atmosfera di quegli anni?

Fino a quel momento le regole bancarie erano contenute in Direttive, ossia norme dirette agli Stati membri che contenevano margini di discrezionalità molto ampi. Questo rendeva molto difficile assicurare che i rischi assunti dalle banche fossero gestiti in modo prudente e omogeneo in tutta Europa. Nel 2010-2011, sotto la leadership dell’allora Commissario Barnier, un uomo di una lucidità e intuizione politica senza pari, la Commissione decide di rinforzare le regole e di creare un insieme di norme comuni valide in tutta Europa (cosiddetto Single Rule Book) attraverso un Regolamento (ossia un atto normativo con regole più dettagliate e direttamente applicabili alle banche). Un accordo internazionale tra le più grandi piazze finanziarie del mondo (detto Accordo di Basilea) approva un nuovo pacchetto di regole nel dicembre 2010, e a luglio 2011 il mio dipartimento prepara una proposta di Regolamento e di Direttiva che estende quelle regole a tutte le banche europee. Si tratta certamente di un testo prudenziale molto esigente, siamo nel mezzo della recessione più grave degli ultimi 80 anni, ma le ferite della crisi per i cittadini, i risparmiatori e i contribuenti erano tali e visibili che il Consiglio e il Parlamento a stragrande maggioranza lavorano alacremente per portare a termine la proposta legislativa, rispettando lo spirito della proposta iniziale che voleva fare in modo che una crisi bancaria di quelle dimensioni non potesse ripetersi. Mi piace sempre citare un episodio a riprova della tensione morale che c’era per dotare l’Europa di un testo che evitasse nuovi drammi: nel novembre 2012, nel momento più acuto della crisi, iniziamo a discutere di norme sulla liquidità nell’ambito dei triloghi tra Parlamento, Consiglio e Commissione3. Tutti sono d’accordo a rinforzarle ma ci sono divergenze sulla data in cui farle entrare in vigore: 2019 (come suggerito dagli accordi internazionali) o addirittura anticipare al 2018? La discussione va avanti fino ad oltre le 2 di notte e finalmente si decide di essere più esigenti e rendere le norme applicabili dal 2018. Mia figlia (all’epoca 15enne) mi domanda il giorno dopo: “Ma papà, non potevate finire ad un orario normale e discuterne la mattina dopo visto che discutevate di una cosa che deve avvenire nel 2018 o 2019?” Non potevamo. L’imperativo di tutti in quel momento era di dare risposte, rapide, coerenti e giuste alla crisi. A marzo 2013, dopo ben 36 (!) triloghi, molti dei quali finiti a notte fonda, il testo viene definitivamente approvato. In meno di 20 mesi, la più grande riforma delle regole prudenziali bancarie composta da ben oltre 700 articoli e che rivoluziona il modo in cui le 3 Il trilogo è la fase finale della procedura legislativa quando sulla base del testo iniziale della Commissione, sia il Consiglio che il Parlamento hanno adottato il loro testo e discutono insieme alla Commissione, attraverso un dialogo a tre (trilogo: Commissione, Consiglio e Parlamento), di giungere ad un testo comune per l’adozione finale. In genere, una proposta legislativa in materia finanziaria necessita di 4-6 triloghi per avere un testo definitivo. banche si rapportano al mercato era stata adottata. Un successo enorme e come dico spesso scherzando (ma non troppo) “in termini di articoli per giorno, sicura- mente uno dei testi adottati più velocemente”. Col senno di poi, oggi estate 2017, possiamo davvero dire che quelle norme sono state l’elemento chiave del rafforzamento del sistema bancario europeo e hanno permesso l’eliminazione del rischio sistemico che invece era ben presente nel 2010-2011. I mercati finanziari le hanno addirittura applicate con anticipo rispetto alla loro entrata in vigore e così facendo hanno ridato solidità al sistema. Fino a quel momento l’Unione ha seguito l’impostazione già avuta fino ad allora nel settore bancario: regole comuni europee, ma applicazione delle stesse lasciata a livello nazionale.

L’Unione Bancaria è stata la vera rivoluzione, come è nata?

L’Unione Bancaria resterà per me sempre legata all’estate 2012. Erano mesi di grandi tensioni sui mercati azionari, ma soprattutto su quelli obbligazionari dei titoli di stato. Mentre stavamo negoziando le norme prudenziali comuni per il settore bancario (Single Rule Book), successero due eventi importantissimi e collegati: il 29 giugno il Consiglio Europeo chiese alla Commissione di preparare una proposta per creare un sistema di supervisione bancaria unica a livello europeo, e il 26 luglio il Presidente della Banca Centrale Europea pronunciò la famosa frase secondo cui “Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough”. Alla Commissione capimmo che una tale convergenza politica e un tale investimento nell’Unione economica e monetaria non poteva andare sprecata. Era evidente che in un mercato interconnesso e globalizzato come quello bancario il solo operato degli Stati membri non sarebbe stato sufficiente ad evitare o a gestire una nuova crisi. La finestra temporale per proporre il Meccanismo Unico di Supervisione era ristrettissima e avremmo dovuto presentarlo al primo Consiglio Ecofin utile, cioè il con- siglio informale (con la presenza dei Governatori delle Banche Centrali oltre che dei Ministri delle Finanze) di metà settembre. Annullammo le vacanze, e ci mettemmo all’opera. L’atmosfera che si respirava in ufficio era di grande passione; un progetto concepito da 15-20 anni4 sembrava sul punto di realizzarsi. La Commissione adottò la proposta legislativa il 12 settembre e la presentammo al Consiglio Ecofin del 14 settembre sotto Presidenza cipriota. Mi ricordo di quel giorno a Cipro: ero arrivato la sera prima molto tardi, faceva ancora un gran caldo e avevo dormito male. Ci alzammo il 14 mattina sotto un sole abbagliante, il centro congressi dove si teneva l’Ecofin era un edificio moderno tutto bianco avvolto nell’aria condizionata e dentro il quale faceva fresco, se non proprio freddo. Il Commissario Barnier fece una presentazione precisa e dettagliata, al seguito del quale i Ministri e i Governatori cominciarono a fare i propri commenti. Il progetto fu accolto con favore: entro Natale sarebbe stato adottato dal Consiglio ed esattamente un anno dopo, il 12 settembre 2013, sotto Presidenza lituana, il testo sarebbe diventato legge. Dopo 20 anni di attesa, l’Unione Europea aveva un libro unico delle regole bancarie e un organo unico che supervisionasse l’applicazione di quelle regole. Il tutto è successo tra il 2011 e il 2013, probabilmente nel momento più difficile e turbolento per l’Unione Europea. Come spesso nei momenti drammatici, anche in quell’occasione l’Unione ha trovato la forza di ripartire.  Il primo progetto di Supervisione Unica risale addirittura agli anni ’90 e Brian Quinn, allora Vicegovernatore della Banca d’Inghilterra, era il Presidente del Comitato che ne aveva preparato i lavori. Mi piace ricordare che una volta arrivato all’età della pensione, Brian Quinn si è riconvertito in Presidente del Glasgow Celtic Football Club, col quale ha vinto in sette anni, quattro campionati di Scozia e cinque Coppie di Scozia. Il che di- mostra che c’è vita dopo aver fatto il regolatore finanziario…!

E se dovesse fare una classifica, qual è la più grande soddisfazione professionale?

Io spero fortemente che la più grande soddisfazione professionale debba ancora arrivare!
Certo in quasi 25 anni di carriera alla Commissione Europea ho visto dossier e negoziati, tra i quali quelli sopra ricordati sono stati molto appassionanti da vivere, ma mi piace pensare che la più grande soddisfazione sia legata piuttosto alle persone e ai colleghi con cui ho costruito rapporti di estrema fiducia che mi hanno permesso di realizzare assieme una visione dell’Europa unita. Le Istituzioni europee hanno un personale di qualità altissima. Il concorso per entrare è molto difficile (quello che passai io aveva circa 100.000 candidati per 300 posti) ma non è solo quello. La maggior parte dei colleghi con cui lavoro ora hanno delle doti e delle capacità personali che sono incredibili: buona parte sa parlare in pubblico almeno quattro lingue, molti hanno un Ph.D. o almeno un Master preso in qualche università prestigiosa del mondo, ma soprattutto hanno quasi tutti doti nascoste: c’è il campione di scacchi, c’è quello che legge Tolstoj in russo, c’è il musicista provetto, c’è quello che ha scalato il Kilimangiaro ed è sceso in deltaplano, c’è il maratoneta, c’è quella che parla cinese, c’è la campionessa di salto a cavallo e c’è quella che scrive articoli di diritto comunitario e li presenta e discute in vari congressi nel mondo. E in questa incredibile diversità, si scoprono delle affinità intellettive con alcune persone, che trascendono passaporti, frontiere, lingue e si basano su culture e valori comuni. Negli anni, ho conosciuto persone eccezionali, prima spesso miei superiori, poi pari grado, poi ora miei collaboratori stretti a cui mi rivolgo per avere dei consigli. E da professore so che non c’è nulla di più coinvolgente e appassionante di trovare l’allievo che supera il maestro. Quando capita, come mi sta capitando ora, è semplicemente fantastico e rende la speranza nel futuro del progetto europeo molto concreta.

Il suo è un settore in cui ogni decisione può avere un impatto enorme. Come affronta le decisioni difficili?

I negoziati sono spesso abbastanza “fisici”, nel senso che ci vuole resistenza e capacità di rimanere concentrati. Prendere decisioni costantemente buone è difficile. Ma una cosa aiuta tantissimo: la preparazione. Metto un’attenzione quasi maniacale a preparare le riunioni. Chiamo spessissimo i miei collaboratori nel mio ufficio. Non mi piace leggere i documenti per e-mail, mi piace che chi li ha scritti venga nel mio ufficio a raccontarmeli, a spiegarmeli e a discuterne. Le discussioni sono spesso animate e credo istruttive per tutti. Sulla base di questa discussione, anche le decisioni più difficili diventano concettualmente più abbordabili perché condivise.

I suoi colleghi dicono che è instancabile ed è un gran- dissimo motivatore. Cosa le dà questa energia?

La passione. Il lavoro del funzionario europeo richiede moltissima passione e voglia di fare: per me non è un semplice lavoro, ma una missione. Come dicevo all’inizio, ho avuto la fortuna di poter coniugare nel mio lavoro la mia parte razionale, legata al desiderio di migliorare le cose, con quella emozionale, che vede nel progetto europeo una grandissima opportunità di crescita non solo come individui, ma come comunità nel suo insieme. Il privilegio di avere colleghi ugualmente motivati e appassionati rende tutto questo molto reale e concreto.

Cos’ha da dire ai giovani che vogliono fare una carriera nelle istituzioni europee?

Fatelo! Studiate e venite ad aiutarci! L’Europa è cambiata tantissimo negli ultimi 30 anni. Quando io ho fatto l’Erasmus a Parigi c’erano ancora le monete nazionali, la cortina di ferro, Tallin era in Unione Sovietica e Bratislava non era una capitale. Chi avrebbe mai detto nel 1987 che nel 2002 il Portogallo e la Finlandia avrebbero avuto la stessa moneta? Che si sarebbe potuto andare da un Paese ad un altro con meno di 100 euro di aereo e senza mostrare passaporti o carte d’identità? Oppure che senza neanche muoversi dal proprio paesino si poteva beneficiare del grande mercato europeo via internet? E se penso a cosa potrebbe essere l’Europa fra 30 anni, in materia di energia, difesa, economia, finanza etc., se solo avremo il coraggio di prendere decisioni razionali e non quelle provinciali o miopi, mi vengono i brividi dalla gioia. Una giovane o un giovane 30enne che entra oggi a lavorare alla Commissione Europea, ha davanti a sé una chance incredibile di essere attrice o attore del mondo che cambia per i prossimi 40 anni.