Migliori film, serie e libri 2020

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Harriet di Kasi Lemmons, Usa 2019, voto: 9-; film bello, intenso ed emozionante, di denuncia della schiavitù e, soprattutto di lotta per l’emancipazione degli oppressi. Tratto da una esemplare storia vera di una schiava che conquistata la libertà con la fuga al nord, non esita a tornare regolarmente al sud per cercare di emancipare più schiavi possibili. Il film, non a caso, non ha ancora trovato un distributore in Italia. L’elemento più discutibile del film è l’accentuazione della fede religiosa che si lega inestricabilmente nella protagonista con il coraggio nella lotta per l’emancipazione del genere umano. Per quanto sia un elemento realistico dal punto di vista storico e per quanto si mostri altrettanto realisticamente l’ambiguità del reverendo afroamericano che da una parte predica la sottomissione ai padroni, ma dall’altra dà rifugio agli schiavi in fuga, questo aspetto contraddittorio andava meglio contestualizzato.

Mrs. America, miniserie televisiva statunitense, creata da Dahvi Weller e distribuita nel 2020 da Hulu, voto: 9-; la serie ha al centro una questione storica sostanziale, la grande lotta per la parità dei diritti delle donne statunitensi, portata avanti dagli inizi degli anni settanta. Interessante anche la scelta di affrontare tale questione da un punto di vista decisamente straniante, ossia nella prospettiva di una esponente ultra-reazionaria del Partito repubblicano, della sua famiglia e del suo bacino elettorale. La protagonista viene a sapere da sue fans casalinghe che il suo non aver preso una chiara posizione contro il progetto di eguaglianza dei diritti delle donne, rischia di far diminuire il sostegno del suo potenziale blocco elettorale. Decide, così, di lanciarsi in una vera e propria crociata contro la legge per l’eguaglianza dei diritti delle donne, che spaventa le casalinghe più tradizionaliste e conservatrici, scavalcando di nuovo a destra lo stesso presidente repubblicano Nixon, che opportunisticamente dichiarava di approvare la legge. Peraltro Mrs. America punta a far emergere un repubblicano schierato ancora più a destra come Ronald Regan. Nonostante le sue capacità e le sue piccole ambizioni di emergere è, però, costretta a subire la schiavitù domestica cui peraltro afferma, contraddittoriamente, di essersi votata. Vediamo, infine, come il movimento che si batte per la legge sull’eguaglianza, per quanto sostenuto essenzialmente da progressisti, cerchi di assumere una posizione non schierata politicamente, per attirare anche donne filo-repubblicane, con tutte le contraddizioni che questa scelta comporta. Resta il dubbio che le spaventose posizioni reazionarie della protagonista non emergano per quello che realmente sono, in primo luogo per la grande capacità che ha di immedesimarsi Cate Blanchett nel suo personaggio, senza utilizzare il particolarmente indispensabile effetto di straniamento. L’altro dubbio è che la sua capacità di affermarsi come donna in un partito e in un mondo maschilista e patriarcale come quello repubblicano non possa essere ritenuto, paradossalmente, da chi considera da un mero punto di vista astratto la lotta delle donne, come un contributo sui generis all’emancipazione femminile.

Il diritto di opporsi di Destin Daniel Cretton, Usa 2019, voto: 8,5; ottimo film di denuncia sullo spaventoso razzismo che domina, ancora ai giorni nostri, negli Stati Uniti e, in particolare, negli Stati ex schiavisti del sud. Il film è anche un’efficacissima e documentata denuncia – essendo tratto da una storia vera – del classismo razzista del sistema giuridico statunitense, paese che pretende di imporre in tutto il mondo, anche con la violenza, i diritti umani. Come appare evidente nel film agli organi inquirenti della magistratura e della polizia non interessa nulla ricostruire la verità storica e comminare la giusta pena ai delinquenti, quanto piuttosto sbattere (quanto prima) il mostro in prima pagina. Lo scopo è quello di criminalizzare la povertà e di rassicurare le classi dominanti che le classi “pericolose” sono tenute in uno stato di costante terrore dagli apparati repressivi dello Stato imperialista. Il film è anche meritorio nel mostrare che la questione dirimente non è la discriminazione razziale, ma la discriminazione di classe, visto che anche poveri caucasici subiscono ogni forma di violenza per poter raggiungere l’obiettivo di tranquillizzare i benpensanti con il sistema ben rodato della decimazione delle classi subalterne. Infine, il film non si limita alla pur meritoria denuncia realistica e tipica dell’irrazionalità dell’esistente, ma apre una significativa prospettiva catartica, nella direzione della formazione di intellettuali organici alle classi subalterne, in particolare afroamericane, che possano dare una direzione consapevole alla giusta indignazione e frustrazione dei ceti umiliati e offesi. Un film da non perdere, naturalmente bistrattato dalla critica, anche di “sinistra”, in quanto troppo in contrasto con il pensiero unico dominante e i tipici prodotti dell’industria culturale.

Cattive acque, di Todd Haynes, Usa 2019, voto: 8,5; ottimo film che garantisce godimento estetico lasciando molto su cui riflettere allo spettatore a proposito della società capitalistica e delle sue contraddizioni di fondo. Al centro del film sono finalmente posti i crimini contro l’umanità compiuti dalle grandi multinazionali, nel caso specifico una delle più grandi aziende monopolistiche della chimica che è riuscita per decenni a intossicare, facendo enormi profitti, il 99% del genere umano e la stragrande maggioranza degli esseri viventi del nostro paese. Ciò nonostante tutte le autorità dello Stato capitalistico, oltre al ceto politico, hanno fatto di tutto per non far emergere lo scandalo. Paradossale è il ruolo dei media che, al di là di questo coraggioso e importante film, non hanno fatto nulla per mettere in evidenza questo gravissimo delitto ai danni del genere umano e dell’intera vita sulla terra, per non mettere in nessun modo in discussione il sistema capitalistico, nel quale l’unica cosa che conta è massimizzare il profitto. Peraltro, a ulteriore conferma che non si tratti di un caso isolato, basti ricordare la vicenda altrettanto terrificante e sconvolgente della grande casa farmaceutica Purdue Pharma che non solo ha creato milioni di tossicodipendenti pur di fare profitti con l’antidolorifico fentanyl ma, grazie alla copertura del sistema, si è spaventosamente arricchita pur essendo divenuta la principale causa di morte fra gli abitanti degli Stati Uniti.

Il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick, Gran Bretagna 1964, voto: 8,5; grande film di denuncia della fobia anticomunista dell’esercito statunitense, che ha tenuto durante la guerra fredda il mondo con il fiato sospeso dinanzi ai rischi di una guerra atomica che avrebbe messo a repentaglio la stessa vita sulla terra. Particolarmente incisiva è la figura del Dottor Stranamore, che denuncia la funzione decisiva che hanno avuto nella guerra fredda e nel rischio di una guerra nucleare i criminali nazisti reclutati dagli Stati Uniti e posti in ruoli di altissima responsabilità. Purtroppo del tutto ideologica e irreali

stica è la rappresentazione dei sovietici, a dimostrazione di come anche gli intellettuali occidentali più critici rispetto alla fobia anticomunista e ai rischi che essa comporta per la sopravvivenza stessa del genere umano, siano anch’essi influenzati dall’ideologia dominante, che tende a disumanizzare i comunisti.

Snowpiercer, serie tv in 10 episodi, Usa 2020, voto: 8,5; nella serie emergono le terribili contraddizioni di un sistema fondato su sfruttamento, oppressione e assurdi privilegi. Si manifestano anche le doti stoiche da vero rivoluzionario del protagonista. D’altra parte è quantomeno inverosimile che a guidare un processo rivoluzionario possa essere un poliziotto per quanto proletarizzato, orgoglioso della professione che svolge. Molto interessante e realistico è invece lo squallore e la completa immoralità che caratterizzano le classi dominanti. Mentre si mostrano anche le doti di chi lavora al loro servizio, che in un’altra situazione potrebbero divenire utili alle classi subalterne, una volta portato a compimento il loro progetto di conquista per via rivoluzionaria del potere. La serie affronta sostanziali questioni sul carattere di classe della giustizia, della sua amministrazione e più in generale riflessioni significative sui rapporti fra le classi sociali, dai momenti di scontro aperto, alla guerra di posizione per l’egemonia. Interessante anche l’approfondita analisi della dinamiche interne, contraddittorie e dialettiche, interne al blocco sociale dominante. Da qui la complessa dialettica fra la classe dirigente politica, interessata alla mediazione per poter esercitare la propria funzione di dominio mediante la capacità di egemonia e gli apparati repressivi pronti a realizzare i propositi golpisti dei settori più reazionari della classe dominante. In particolare nel momento in cui il blocco sociale dominante comincia a scricchiolare, le condizioni di sfruttamento e proletarizzazione portano a una radicalizzazione in senso progressivo dei ceti medi e della piccola borghesia. Tanto che si apre la possibilità di un’alleanza fra i settori più avanzati di quest’ultima e i settori meno settari che dirigono i subalterni. Il problema di fondo della serie, che rende ambiguo e non realistico nel contesto tutti i pur significativi riferimenti al contesto sociale, è che nel caso specifico il padrone delle ferriere è divenuto solo un simbolo del potere dittatoriale che vige in ogni società classista, e la gestione del potere sia dal punto di vista tecnico e politico sia completamente nelle mani di un tecnico, il quale crede profondamente nel suo mestiere e si ritiene responsabile della sopravvivenza stessa del genere umano, essendo privo di spirito dell’utopia e di principio speranza e non intendendo rinunciare ai propri privilegi, ossia la possibilità di esercizio di un potere per diversi aspetti autocratico.

Sorry We Missed You di Ken Loach, Gran Bretagna, Francia e Belgio 2019, voto: 8+; grande film di denuncia sulle condizioni di sfruttamento del proletariato moderno che, purtroppo, tendono a tornare a essere tanto drammatiche da non differire più di tanto da quelle del secondo dopoguerra.

Segnalo, infine, cinque ottimi libri che ho recensito quest’anno su questo giornale:

1849 I guerrieri della libertà di Valerio Evangelisti, Mondadori, Milano 2019, voto: 9,5; un altro magnifico libro di Valerio Evangelisti, che ci fa rivivere un grande momento rivoluzionario, spesso a torto dimenticato, ovvero la Repubblica romana del 1849. In un’epoca buia di restaurazione come la nostra, è decisamente necessario per tenere alto l’ottimismo della volontà fare l’esperienza estetica di un grande movimento rivoluzionario che peraltro ha interessato la nostra sventurata città, sede del papato.

Soluzioni hegeliane, voto: 9, è una raccolta di saggi di Francesco Valentini, dedicati in maniera diretta o indiretta a delucidare il pensiero hegeliano. Le tematiche affrontate nella prima sezione sono: la società civile, il mondo della ricchezza, la moralità, le prime categorie della Logica, l’interpretazione dell’illuminismo, il Sapere assoluto, la genesi della razionalità. Nella seconda, invece, Valentini analizza la filosofia di Eric Weil, una filosofia fortemente influenzata dal pensiero di Hegel come da quello di Kant. Il confronto tra questi due filosofi e l’interpretazione storicistica del pensiero hegeliano possono essere considerate le due caratteristiche fondamentali dell’approccio dell’autore alle differenti problematiche presenti nel suo libro.

La commedia umana, volume II, di Honoré (de) Balzac, a cura di M. Buongiovanni Bertini, Splendori e miserie delle cortigiane, voto 8,5; un altro dei capolavori immortali di Balzac, da una parte rovesci tutti i luoghi comuni e i pregiudizi classisti, razziali dell’epoca mostrando come una cortigiana, poverissima, di origine ebrea abbia una grandezza d’animo superiore a gran parte del grande mondo parigino. Molto significativo anche la scelta di personaggi principali con Julien ed Herrera alias Vautrin funzionali a un perfetto utilizzo dell’effetto di straniamento. Si tratta di due personaggi decisamente negativi, con cui è quasi impossibile identificarsi e che ci permettono di osservare da un punto di vista straniato la grandezza e la miseria non solo delle cortigiani, ma della stessa classe dominante francese dell’epoca. Questi mondi ci sono presentati dal punto di vista di Julien, arrivista provinciale pronto a tutto pur di avere successo nel gran mondo parigino e dal punto di vista di un rappresentante eccezionale del mondo del crimine. In tal modo possiamo vedere come il mondo del crimine sia legato, non solo come è naturale ai bassifondi e agli arrivisti, ma agli stessi esponenti della classe dominante. I quali ne apprezzeranno a tal punto le doti di criminale da porlo a capo dello stesso apparato repressivo dello Stato, al posto peraltro di un altro criminale soltanto meno assoluto e spietato.

L’ipocondria dell’impolitico, di Domenico Losurdo, Milella Edizioni, Lecce 2001, voto: 8+: Domenico Losurdo intende fare dell’“ipocondria dell’impolitico” una sorta di filo conduttore che consenta di restituire il pensiero politico di Hegel e di tenere insieme i diversi saggi che raccoglie in questo corposo volume, dedicati in massima parte all’indagine della fortuna dello Hegel “politico”. Il libro di Losurdo è indubbiamente molto ricco e stimolante, riuscendo a tenere insieme in modo magistrale il piano filosofico e quello storico dell’analisi, pur non sottraendosi in singoli passaggi al rischio di forzare un po’ il piano della lettera dei testi per farla rientrare nello spirito della sua argomentazione. L’opera di Losurdo, pur essendo come di consueto caratterizzata da un poderoso impianto analitico, non si sottrae sempre al rischio di inevitabili ripetizioni, peraltro dovute alla forma stessa del volume che resta una estremamente significativa raccolta di importanti saggi, unificati post factum sotto il comune determinatore della critica alla Romantik.

Con questo termine, Hegel criticava il mito di una soggettiva vita spirituale interiore, che dovrebbe essere maggiormente elevata del grande e terribile mondo oggettivo della politica. Questa concezione tenderebbe in ogni modo a scoraggiare una attiva partecipazione all’agone politico. Il problema si pone soprattutto per gli intellettuali che, dopo la caduta dell’ancien régime, sono chiamati in prima persona a farsi carico della vita politica. In effetti, fra la fine del settecento e l’inizio dell’ottocento, mentre nei liberali paesi anglosassoni il ruolo degli intellettuali è sottoposto o fa tutt’uno con quello dei possidenti, in Francia, Russia e anche in Germania si crea il “pericolo”, per i conservatori, di un loro impegno politico che, fondato su principi razionali, portasse a una critica sovversiva degli aspetti irrazionali dell’ordine costituito, in grado di mobilitare anche le masse popolari.

Hegel. La dialettica di Vladimiro Giacché, Diarkos, Filosofie 2020, voto: 8; dopo diversi anni di eccellenti studi in ambito economico-politico, l’autore ritorna alle sue origini filosofiche e alla sua passione giovanile per Hegel. Giacché riesce nell’autentica impresa di realizzare un libro decisamente valido sia per chi intende affrontare per la prima volta lo studio della filosofia di Hegel e sia per chi se ne occupa da anni. Riesce in modo lucidissimo a inquadrare tutti i tratti salienti dell’opera di Hegel, senza mai semplificare, ma rendendo al contempo opere tanto complesse accessibili a chiunque sia seriamente interessato a comprenderle. Così, nella prima parte, in cui ripercorre lo sviluppo del pensiero di Hegel attraverso le sue opere, riesce nel difficilissimo compito di essere al contempo estremamente sintetico e al contempo analitico quanto basta per affrontare ed esplicitare tutti i nuclei portanti delle opere di Hegel. Da questo punto di vista questa introduzione di Giacché alla filosofia di Hegel è quasi certamente la migliore nel suo genere.

Rinvio alla recensione dell’unica significativa mostra che sono riuscito a vedere in quest’anno funestato dalla pandemia: Raffaello 1520-1483 alle Scuderie del Quirinale di Roma, voto: 8,5; la mostra decisamente di grande rilievo, essendo quasi esclusivamente incentrata sul più grande pittore, con diverse opere provenienti da tutto il mondo, è stata in parte deturpata dalla pandemia. Esplosa pochi giorni dopo la sua inaugurazione, la mostra è tornata visitabile solo dal 2 giugno, ma con entrate contingentate e ritmi assurdi. Inoltre, la discutibile disposizione delle opere in senso opposto allo sviluppo storico dell’opera di Raffaello, avrebbero dovuto consentire una volta terminato il percorso al ritroso, un secondo giro in ordine inverso, seguendo così l’evoluzione artistica di questo vero e proprio genio. Infine l’idea di proporre esclusivamente un raffronto, per quanto estremamente significativo, delle opere di Raffaello con le opere romane classiche a cui si ispirato, fondando il classicismo pittorico, senza un raffronto con i grandissimi artisti con cui l’artista si è confrontato nella sua breve esistenza appare alquanto unilaterale. Come colpisce negativamente la sostanziale assenza di opere della scuola di Raffaello (una delle più ricche e importanti, visto che l’enorme mole di committenze aveva costretto il maestro a circondarsi di un significativo numero di artisti di rilievo) e degli innumerevoli artisti manieristi, nel senso etimologico del termine, ovvero che hanno dipinto alla maniera di Raffaello.

Non resta, infine, che rinviare alla recensione ai David di Donatello 2020, voto: 3,5; sin dalle nomination si poteva facilmente dedurre che anche quest’anno non sarebbero stati premiati i migliori – o almeno i meno peggio, dato lo stato comatoso del cinema italiano – ma i film più conformi all’ideologia dominante. Così le maggior nomination erano state totalizzate dall’ennesimo pessimo film di Bellocchio – decisamente uno dei registi più assurdamente sopravvalutati della storia del cinema – volto essenzialmente a contrapporre la mafia dal volto umano di una volta a quella criminale dei corleonesi, senza praticamente affrontare le cause reali a livello economico e sociale della criminalità organizzata e la sua sostanziale connivenza con la dittatura della borghesia. Secondo come numero di nomination si era piazzato Il primo re, decisamente il film italiano più assurdamente sopravvalutato dell’anno, a pari merito con Pinocchio opera del regista più sopravvalutato delle “giovani” generazioni.                                    fonte