Perché quella del governo Conte è stata una crisi a orologeria

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La crisi che ha travolto il secondo governo Conte non nasce a gennaio 2021. È una crisi in preparazione da più di un anno, ritardata solo dall’esplosione della pandemia. Questa ha, in realtà, ulteriormente acceso la volontà di un pezzo – grande e forte – di élite italiana di far saltare il tavolo: se già prima per alcuni erano indigeste le misure timidamente redistributive che il governo stava approntando, la messa in campo del Next Generation EU (assieme al blocco dei licenziamenti) ha reso intollerabile per i vertici del mondo industriale e finanziario non avere leve dirette nella stanza dei bottoni.

Non era Giuseppe Conte il solo problema: contro questo governo si è scatenato un fortissimo odio sociale rivolto, però, dall’alto verso il basso. È emerso con asprezza il rancore di tanti ottimati incapaci di accettare che le più importanti decisioni strategiche sul futuro del Paese venissero prese dalla politica e non dai manager provenienti da prestigiosi istituti commerciali.

Matteo Renzi ha svolto – purtroppo, con perizia – il ruolo di sicario, con il supporto di un martellamento mai visto da parte della quasi totalità della stampa, anche quella che dice di guardare a sinistra; e ora siamo all’interno di questa crisi a orologeria, esplosa nel momento in cui ne è più complessa una soluzione in senso progressista.

Per questo però bisogna dire con forza che chi parla di irresponsabilità della politica, come se le colpe di questa crisi fossero equamente suddivise, mente. E lo fa in modo consapevole, per intorbidire le acque.

È evidente a tutti infatti che Pd, LeU e M5S abbiano lavorato per restituire un governo al Paese, mentre Iv si è impegnata per far saltare tutto.

La nostra cultura politica, a ogni modo, insegna che la strategia è più importante dei nomi, ed è su questo piano che si misurano le operazioni politiche.

Il bersaglio di Renzi e dei suoi mandanti è, più che Conte, la formula: ciò che si vuole realmente distruggere è l’alleanza tra centrosinistra e M5S ossia, sul piano strutturale, il tentativo di spostare l’asse del paese un centimetro verso i ceti popolari e la tutela delle persone piuttosto che dei capitali. Un tentativo che gran parte della cittadinanza ha compreso, approvato e sostenuto, come emerso da tutte le rilevazioni demoscopiche.

Chi ha scommesso tutto sulla venuta di Mario Draghi vuole, chiaramente, il ritorno a uno schema centrista che, sul piano delle politiche reali, si traduce nell’idea che le élites non devono lasciare neanche le briciole che cadono dal tavolo. Chi punta a questa soluzione non mostra alcun interesse per il Paese, e men che mai per il benessere dei cittadini, ma piuttosto soltanto la soddisfazione per la possibilità di cacciare dalle stanze delle decisioni quelli che vengono percepiti come usurpatori.

Questo revanscismo nasce da un orgoglioso classismo, la cui retorica delle “competenze” nasconde, in realtà, solo il disprezzo di chi guarda gli altri dall’alto in basso.

Ma, poiché appunto prima dei nomi vengono le formule, è importante non lasciare cadere l’opzione strategica a cui lungamente si è lavorato: se così fosse, avrebbe davvero vinto la restaurazione. È su questo, e non sul nome del presidente incaricato, che si misura il successo o la sconfitta del tentativo renziano.

Bisogna evitare di cadere nella trappola della polarizzazione attorno alla figura del presidente incaricato. Draghi è un uomo delle istituzioni finanziarie che ha avuto una carriera lunga, con momenti opachi e altri invece molto positivi; il punto ora non è chi sia lui, ma se si sarà in grado di tenere salda l’intesa tra LeU, Pd e M5S in modo da condizionare l’operato del nuovo governo. Se queste tre forze restano compatte, numeri alla mano, risultano blocco imprescindibile per la creazione della nuova maggioranza.

La riuscita di questo tentativo significherebbe anche, molto chiaramente, non lasciare spazio alla riproposizione di un’esperienza come quella del 2011: lo scenario non è (e non bisogna permettere che scivoli verso) quello di Draghi che, come Monti, si presenta alle Camere con un governo tecnico – cosa, peraltro, che non esiste, poiché ogni governo è inevitabilmente retto da una maggioranza politica – e una propria agenda, prendere o lasciare.

Draghi può invece guidare un governo chiaramente politico e una maggioranza basata sul “nuovo centrosinistra”. Il tavolo di mercoledì sera tra le tre forze è stato un buon segnale in questa direzione, e ancor più importanti sono state le dichiarazioni di Conte di ieri mattina, che certificano la tenuta di un dialogo e la nascita una “Alleanza per lo sviluppo sostenibile”.

Ora la battaglia resta difficile, ma non è persa in partenza. Servono nervi saldi e senso della misura.

Anche perché, se non oggi, prima o poi alle urne si dovrà andare. E l’ultima volta che si è votato con qualcuno che intendeva spiegare ai cittadini che erano ignoranti e dovevano solo chinare la testa abbiamo avuto l’esito elettorale più destabilizzante della storia repubblicana. Sarebbe il caso di non dimenticare questa lezione.

Una parola, alla fine, per coloro che ogni tanto compaiono e fanno capire che preferirebbero governare con l’estrema destra piuttosto che riconoscere un minimo di legittimità a qualsiasi ipotesi di giustizia sociale. Per tale crudele follia non basta il giudizio degli uomini, bisognerà rimettersi a quello della Storia.                                                                                                                                                        Lorenzo Fattori