Sette motivi per cui Renzi è il re dei “voltagabbana”

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Responsabili o trasformisti? Costruttori o voltagabbana? Ciascuno si è fatto la propria idea e difficilmente si farà convincere del contrario. Forse si dovrebbe distinguere da caso a caso; forse, in ciascuno dei soggetti, opera un mix di convinzione e opportunismo. Anche al netto della considerazione di chi sostiene che i cambiamenti di oggi ci stanno perché si situano dentro una democrazia parlamentare a base proporzionale che si è messa dietro le spalle il bipolarismo politico – due campi chiaramente distinti e alternativi – due differenze vanno riconosciute: quella con chi, in passato, è stato letteralmente pagato per cambiare casacca; e il contesto di una congiuntura drammatica che non ha precedenti e che suggerisce di non escludere in assoluto che qualcuno abbia avuto un sincero scatto di responsabilità. Ma, ripeto, ognuno si è fatto la propria opinione e se la tiene. Qui vorrei invece argomentare che Renzi, l’attore protagonista della crisi, che più di ogni altro ha gridato allo scandalo, è il re dei voltagabbana. Solo qualche esempio.

Primo: ben oltre singoli casi di transumanza, è semmai Italia Viva – cioè tutto il gruppo parlamentare – la quintessenza del trasformismo. Esso è per intero composto da rappresentanti eletti in altre liste, la più parte sottratti al Pd. Di più: le due celebri ex ministre che Renzi ha usato e celebrato per le loro “eroiche” dimissioni, in verità, usurpavano posti assegnati in quota Pd. Esse sì voltagabbana, il giorno stesso della loro nomina.

Secondo: a sentire Renzi, il Conte-2 sarebbe il peggiore dei governi possibili. Ma non lo aveva propiziato e quasi imposto lui? Se così fosse, sarebbe un fallimento soprattutto suo. Come si concilia l’astensione (se non con tatticismo e opportunismo) con giudizi e parole persino più pesanti di quelli delle opposizioni?

Terzo: Renzi aveva giurato che avrebbe lasciato la politica dopo la bocciatura del suo referendum, ma che poi avrebbe cambiato idea perché inondato da toccanti messaggi che lo imploravano di rimanere in campo. Dubito che, ora, dopo l’ultima genialata, un moto di popolo invochi il “demolitore”.

Quarto: non a torto sono state richiamate le sue parole sulfuree sul potere di interdizione dei piccoli partiti nel quadro di una interpretazione persino estremistica del maggioritario e del bipolarismo/bipartitismo che ispirò le sue riforme. Ora contrasta una legge elettorale con soglia al 5%.

Quinto, l’accusa più stupefacente a Conte: quella di cesarismo, di minacciare la democrazia. Da non credere. Fu lui a fare del “più partito tra i partiti” (anche nel nome: Partito democratico) il PDR, un partito personale: non convocava la segreteria; riduceva le direzioni a comizi; cacciava dalle Commissioni parlamentari i rappresentanti Pd che muovevano qualche critica alla riforma costituzionale; metteva la fiducia sulla legge elettorale; scelse nominativamente pressoché tutti i parlamentari Pd (già traguardano alla futura scissione); ridusse a zero l’agibilità politica interna al Pd al punto da indurre Bersani, forgiato alla scuola dell’unitarismo Pci, a fare ciò che mai avrebbe voluto fare, cioè lasciare il partito. Ancora: la disintermediazione, uno spregio, persino ostentato, per il dialogo con sindacati e forze sociali, a suo dire snobbato da Conte.

Sesto: merita rammentare che la riforma costituzionale e l’Italicum (la sua legge elettorale bocciata dalla Consulta) erano ritagliati su se stesso al tempo in cui “regnava”. L’effetto combinato di esse era quello di consegnare tutto il potere al partito e al leader che avessero vinto, schiacciando l’opposizione.

Settimo: il populismo che Renzi imputa ad altri. Come dimenticare il tenore della sua campagna referendaria tutta centrata sulla parola d’ordine del “taglio delle poltrone”, la sua polemica con i “professoroni”, la guerra a una delle poche istituzioni italiane che godono prestigio come la Banca d’Italia? Una guerra che originò un contrasto con il premier Gentiloni. Il quale, a fine mandato, diede alle stampe un libro dall’eloquente titolo La sfida impopulista, con chiaro riferimento critico a lui. L’elenco potrebbe continuare. Ma, su tutto, domina la prova regina del camaleontismo politico renziano.

Oggi, alla luce del suo approdo a un centrismo che guarda a destra e che comunque piace alla destra cui rende preziosi servizi, ci si chiede sgomenti come egli possa avere recitato a lungo la parte di leader della sinistra italiana. Si stenta a credere che Renzi, da spericolato acrobata, abbia vestito gli improbabili panni del socialista europeo, iscrivendovi sé e il Pd. Un mimetismo da parte sua e un clamoroso difetto di discernimento politico da parte di chi gli ha dato credito. Un deragliamento sino allo snaturamento del Pd e della sinistra, va detto, del quale tanti, troppi, tuttora nel gruppo di comando del Pd, portano responsabilità attive e omissive. Ex malo bonum: grazie alla crisi tutto è più chiaro.                                   di Franco Monaco