Si riformino presto i regolamenti parlamentari

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La grande maggioranza del Parlamento sostiene l’esecutivo del presidente Draghi. È un fatto noto, che può piacere o meno, però è la realtà. L’opposizione è minima, anche se non è la più esigua della storia, visti altri precedenti che ricordano intese politiche ancora più larghe. Eppure questa scelta, che per qualcuno appare come un gesto di maturità delle classi dirigenti, di assunzione di responsabilità, testimonia un paradosso interessante. Penso al fatto che una maggioranza di circa i 4/5 di Camera e Senato ha deciso di appoggiare in blocco un nuovo esecutivo, pochi mesi dopo la scelta degli elettori di ridurre drasticamente i seggi parlamentari. Se dalle piazze è arrivato un colpo di forbici, quindi un gesto di parziale discredito verso l’istituzione parlamentare, dall’altro la classe politica si è unita con più forza dietro le spalle dell’ex-presidente della Bce.
Ancora riforme costituzionali?

I più convinti sostenitori della grande coalizione chiedono che le due Camere, grazie alla nuova convergenza, discutano le tanto attese riforme strutturali che il sistema, nel suo complesso, aspetterebbe da anni. È il momento migliore per cambiare la Costituzione, sostengono. Fermo restando il fatto che sono altre le priorità del paese, su cui Governo e Parlamento insieme devono concentrarsi, la distanza tra le forze politiche e il tempo a loro disposizione sembrano non giocare a favore di questa ipotesi. Un conto è un’alleanza funzionale alle emergenze del contingente, ben altra cosa sarebbe una forzatura verso la creazione di un clima simil-costituente.
Quorum, maggioranze, minoranze

Una questione che, invece, appare essenziale affrontare di petto è quella dei regolamenti parlamentari. Proprio la riduzione dei seggi impone di dare una risposta a interrogativi tutt’altro che banali. Sappiamo, infatti, che la disciplina che regola il funzionamento delle Camere prevede tutta una serie di quorum su materie delicate, spesso essenziali per il corretto svolgimento delle funzioni di indirizzo politico, controllo e coordinamento che spettano al nostro bicameralismo. Per esempio, sono i regolamenti che stabiliscono il numero minimo di deputati, o senatori, essenziali per formare un gruppo parlamentare. Se consideriamo il Senato della Repubblica (che passerà da 315 membri eletti a 200) si prevede attualmente la soglia minima di dieci senatori per costituire un gruppo autonomo, quindi separato dal famoso gruppo misto. È evidente che, con i numeri pesantemente ridotti, le minoranze politiche, che avranno più difficoltà di accesso ai seggi, saranno penalizzate senza una modifica che abbassi le varie soglie tarate su numeri più alti. Questo argomento può essere applicato a qualsiasi norma di regolamento interno che, se non adeguatamente riesaminata dall’attuale Parlamento, rischia di paralizzare, o penalizzare, i membri della prossima legislatura. Faccio altri esempi. Camera e Senato hanno quattordici commissioni permanenti, che sono essenziali per la vita politica della Repubblica visto che, in loro assenza, le sole assemblee plenarie non riuscirebbero ad elaborare la mole enorme di lavoro che investe l’istituzione. C’è bisogno delle commissioni. In questo momento, a riduzione non ancora applicata, deputati e senatori svolgono mansioni come componenti di molteplici commissioni, provando faticosamente a gestirsi su più fronti. Come potranno occuparsi della stessa mole di lavoro, con lo stesso numero di commissioni, meno persone di quelle che già adesso hanno difficoltà? Senza una ottimizzazione dei tempi e dei contenuti, dovuta a un’attenta rielaborazione dei regolamenti interni, sarebbe impossibile. Si rischia di paralizzare l’iter legislativo. Le stesse commissioni, che possono approvare leggi se convocate in sede deliberante, necessitano di un numero minimo di presenti per validare la propria seduta. Con la riduzione del numero dei parlamentari è stato calcolato che, al Senato, in alcune sedute si potrebbe approvare un disegno di legge con circa cinque voti: non esattamente un grande esempio di democrazia.

Potremmo continuare a lungo, ipotizzando anche qualche piccolissima modifica costituzionale in ambiti procedurali. Come nel caso dell’elezione del Presidente della Repubblica, dove i delegati regionali (tre per ogni Regione, ad eccezione della Val d’Aosta), dopo il taglio, risultano sproporzionati rispetto ai parlamentari che si riuniranno in seduta comune dopo il 2023. Oppure, sempre per quanto riguarda i regolamenti interni, si potrebbe accennare al tempo di discussione in Aula da dare alle minoranze. Se la rappresentatività si riduce quasi del 37%, come è stato stimato, allora non sarebbe male compensare questo dato garantendo più spazi di intervento a chi si troverà all’opposizione. Sono tutte questioni su cui il Parlamento odierno deve necessariamente interrogarsi per trovare valide soluzioni il prima possibile.
La legge elettorale

Anche la legge elettorale si colloca in questo ambito di ricostruzione del quadro politico. Se prima si diceva che la governabilità fosse un valore imprescindibile, adesso la riduzione del numero dei parlamentari impone di ripensare al valore della rappresentatività. Significa virare con forza sul proporzionale? Anche questa scelta può avere delle ripercussioni importanti sul funzionamento interno delle camere e sul percorso legislativo. Insomma, serve mettersi al lavoro per trovare una quadra su questi punti in vista della diciannovesima legislatura, altrimenti il Parlamento rischierà di perdere forza, preda del caso o della trasformazione in passacarte del Governo.

Dispiace che il presidente Draghi non abbia mai menzionato questo punto nei suoi discorsi. Non è un parlamentare, ma sarebbe stato bello sentirlo sollecitare le forze politiche che lo sostengono nell’affrontare, con disciplina e onore, un tema che caratterizzerà lo sviluppo delle istituzioni democratiche negli anni avvenire. Il tempo è poco, ma le responsabilità, su tutti i fronti, sono altissime. Di Federico Micari