Un aereo tutto matto, di Alessandra Caldarelli

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Per la sua terza personale negli spazi della galleria milanese Giò Marconi, Matthew Brannon presenta il suo nuovo progetto Cold Shoulders / Foreign Affairs / Seafood Dinners / Power Vacuums / and the Last Gate at the End of a Very Long Terminal, quello che lui stesso definisce lo spazio di un mondo fluttuante, frutto dell’anno incredibilmente surreale e imprevedibile che è stato il 2020.

Lo stesso artista racconta: “Ho immaginato un aereo sospeso a mezz’aria sopra una città in un qualche momento durante il secolo scorso. Leggero come una piuma, pesante come una balena. Ogni opera mostra il sedile di un passeggero invisibile. È il set di una produzione teatrale dopo che lo spettacolo è finito e le telecamere sono spente”.

Prima di entrare nello spazio della galleria, la tela Classical Music preannuncia un viaggio in prima classe e si sale a bordo di quel volo immaginario e così a lungo sognato, il cui gate – ultimo fra tutti – si riesce a raggiungere dopo aver percorso un terminal lungo più di un anno, venendone inevitabilmente coinvolti, come se quei passeggeri bizzarri ed eclettici fossero davanti agli occhi dello spettatore.

Ecco che in Last Gate of a Long Terminal (2021) ci si sente improvvisamente vicini a quella coda di persone che, finalmente, intraprendono un viaggio, quel viaggio che in molti rimandano da mesi e che continua a slittare in avanti, costringendo a una febbrile attesa.

Va in scena il mondo costruito da Brannon, fatto di serigrafie e collage tipografici, tanto immaginario quanto plausibile, con una carrellata di personaggi di cui l’artista racconta una storia ben precisa, descritta attraverso gli oggetti personali. Del volto di tutti quei passeggeri non è dato vedere nulla, solo una serie di sedili di aereo colorati, il tavolino aperto del posto davanti, la tenda del finestrino sollevata a lasciar intravedere una città sorvolata in orario notturno.

In War Correspondence (2021) un mazzo di carte da gioco accompagna una sigaretta ancora accesa e una bottiglia di vino Ermitage, e sembra di sentire le note del disco che continua a girare sul lettore in primo piano; tra il bicchiere di plastica pronto per sciacquare i denti con il tubetto di Colgate, e il portapillole con le pillole rigorosamente divise per colore, qualcuno è pronto a ingerire anche una fialetta di Valium per resistere forse all’ansia del viaggio; davanti a un vassoio di sushi qualcuno ha portato con sé due cartoline dal Metropolitan Museum e dal Whitney Museum di New York, che stava riguardando alla luce di una lampada cinese; nel riguardare la lucida statuetta di un Oscar, perché non lasciarsi andare a un bel cocktail a base di vin jaune e barbiturici? Persino nella cabina di controllo restano i segni di una serata di baldorie, e una volta inserito il pilota automatico, il comandante si lascia andare, in compagnia delle hostess a bordo, a un festino a base di Dom Perignon.

Attraverso sacchetti del Mc Donald, pedine di scacchi, puzzle, persino un plastico che rappresenta l’anatomia di un cuore, si rivelano le personalità dei singoli protagonisti di quelle “storie nella storia” che Brannon abilmente scrive all’interno dell’aeromobile, i cui titoli sono già di per sé una piccola trama di ciò che si andrà a vedere. Un viaggio immaginario, che è insieme divertente e malinconico, avvolto in quella nostalgia del muoversi che sembra durare da secoli. It’s 1919, 1954, 1963, 1979, 1983 then 1999. And you’re here. Another century over: il pubblico è in fila davanti all’aereo, pronto a partire.