Venezia ormai parla cinese

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Bar e ristoranti. Ma anche agenzie di viaggio. E fra poco alberghi. Se nel 1998 le imprese attive registrate a nome di cittadini provenienti dalla Repubblica popolare cinese erano in tutto 45, adesso in città sono 850. Ma si tratta di un dato largamente in difetto sulla realtà dal momento che non sempre il passaggio di proprietà – da un veneziano ad un cinese – è registrato regolarmente visto che, tra l’altro, chi vende e chi compra maneggia molto “nero”. Peraltro anche la parte in “bianco” normalmente non è tracciabile perché deriva il più delle volte da commesse estere e dunque la Guardia di finanza semplicemente non è in grado di controllare se il cinese di Shanghai che finanzia l’acquisto di un bar a Cannaregio sia una brava persona o un cinese legato a qualche organizzazione criminale che semplicemente ricicla i quattrini investendoli a Venezia. Ed è in questo periodo di grande crisi che gli investimenti cinesi invece di diminuire stanno aumentando. Soprattutto nel settore del turismo. Da qui l’impressione che i cinesi stiano letteralmente comprandosi Venezia. Si tratta solo di capire se è una strategia che ha una testa – nel qual caso si trova in Cina – o se l’attacco concentrico alle attività imprenditoriali veneziane sia frutto di una decisione che riguarda più persone, ma che lavorano indipendentemente una dall’altra. Il comandante regionale della Guardia di Finanza, il generale Giovanni Mainolfi, che Venezia la conosce meglio di un veneziano, ha messo a punto con i suoi uomini una strategia di studio e di monitoraggio che permette di capire molte cose e, volendo, anche di intuire come rischia di andare a finire.
Partiamo dallo studio degli esercizi commerciali. Ce ne sono qualche migliaio, ormai a Venezia, tra bar e ristoranti di proprietà o in affitto a cittadini cinesi. Ebbene, si sa che, fino a prima della pandemia, servivano patrimoni consistenti anche solo per aprire o rilevare o affittare un “bacarò” a Venezia. Basti dire che, un anno prima della chiusura forzata, una pizzeria-ristorante nei pressi di piazza San Marco è stata affittata da una donna cinese a 20 mila euro al mese. Del resto non è un mistero per nessuno che Venezia – fino a febbraio di quest’anno – era una gallina dalle uova di platino. E i cinesi, anno dopo anno, sono entrati nel business miliardario del turismo veneziano. In punta di piedi, senza sgomitare, ma penetrando a fondo nel tessuto economico della città, ma guardandosi bene dal pagare le tasse. Basti dire che, secondo i dati della Guardia di finanza regionale, dal punto di vista erariale al 31 gennaio 2019 ci sono 10.214 codici fiscali di imprenditori cinesi che, a fronte di un debito complessivo iscritto a ruolo per oltre 900 milioni di euro, devono ancora 867 milioni di euro al Fisco.
Insomma si fa prima a dire che i cinesi che lavorano a Venezia versano al Fisco italiano uno zero assoluto. Ma il problema è ancora più a monte e riguarda la provenienza dei capitali perché, quando la Finanza va a controllare, scopre che «i soggetti che risultano titolari formali delle nuove iniziative imprenditoriali – sia quelle costituite ex-novo sia quelle frutto di passaggi di gestione – non presentano un profilo reddituale/patrimoniale tale da giustificare lo sforzo finanziario sotteso all’avvio delle attività».
Vuol dire che troppo spesso ci si trova di fronte al dipendente cinese di un bar italiano, che porta a casa 800 euro al mese e che improvvisamente ha le risorse necessarie per diventare il titolare di quello stesso bar nel quale ha lavorato. «Sul piano finanziario, poi, è stato rilevato che il pagamento delle operazioni avviene di norma attraverso il ricorso a disponibilità bancarie, dichiaratamente alimentate da prestiti di parenti e conoscenti non sempre facilmente identificabili e, talvolta, provenienti direttamente dall’estero – spiega la Guardia di finanza – Il che limita di molto le possibilità di concreta ricostruzione dell’origine della provvista». Bisognerebbe infatti che gli investigatori fossero autorizzati ad accedere ad una rogatoria internazionale, chiedendo l’intervento del Ministero della giustizia e di quello degli Esteri per andare a buttar un occhio in un conto corrente di una banca cinese. Figuriamoci. E così i soldi semplicemente vengono e vanno – i cinesi hanno riportato in patria finora quasi 600 milioni di euro – senza che nessuno sia in grado di controllare se si tratti di soldi puliti o sporchi.