Hugo, Lalo: ho sbagliato io. Dovevo saltare anche il portiere, ho avuto fretta. La prossima volta…».
Diego ha 18 anni, è l’autunno 1978, amichevole di lusso a Wembley tra Inghilterra e Argentina, che pochi mesi prima ha vinto un mondiale imposto, guidato, pilotato dal regime militare.
Il ragazzino arrivato dal sobborgo di Villa Fiorito abbaglia la vecchia cattedrale londinese: a un certo punto parte il suo tango, lento eppure rapido, frenetico eppure struggente: con la palla attaccata al sinistro scivola leggero in mezzo ai marcantoni britannici, ma davanti al portiere angola troppo l’esterno mancino liftato. Pochi giorni dopo racconterà ai fratelli: ho sbagliato ma vedrete la prossima volta… Diego Armando Maradona non ha soltanto il piede sinistro plasmato dagli Dei, ma anche una stupefacente memoria visiva e cinetica. Nel senso che registra e archivia quali movimenti ha fatto e quando li ha fatti. Città del Messico, otto anni dopo: stessi avversari, a lungo provocati per via della questione delle Falkland. Il ragazzo del barrio di villa Fiorito, ormai fuoriclasse affermato, d’un tratto si ricorda: raccoglie il tocco di Brown, l’assist più facile e più celebre della storia, e parte.
Uno, due, tre, quattro, cinque sudditi di Sua Mestà saltati come birilli inermi. Arrivato davanti a Peter Shilton, in una frazione di secondo, Diego si ricorda di Wembley, otto anni prima. E stavolta, alla velocità della luce, decide di dare la stoccata, l’ultimo dribbling, la muleta sul corpo del toro esanime. Il tocco che accompagna la palla in gol è musica. Hugo e Lalo, davanti alla tv, già sapevano tutto.
Maradona è stato il calcio perché al calcio ha saputo dare una forma unica. Più di Pelè, più di Crujiff che hanno incantato e vinto, ma con accanto Didì, Vavà, Jairzinho oppure Neeskens, Rep, Krol. No, lui ha fatto come quando era una cebollita, sui campetti di Baires: palla a me, vinco da solo.
Con ogni mezzo, anche da borseggiatore del gol, da mariuolo del gesto: impossibile immaginare Pelè o un’altra divinità del pallone saltare davanti al povero Shilton e, in una frazione di secondo, portare la mano all’altezza della testa, colpire la palla, mandarla in rete per poi correre, impunito, ad esultare con la sua gente. Illusione ottica, genio, prestidigitazione applicata al calcio. La mano de dios. Non solo l’arbitro, ma tutto il mondo ha creduto al gol di testa: e quando si è accorto del trucco ha applaudito comunque all’istinto di Houdini.
Mai banale, sempre diverso, una poesia dopo l’altra: non ricordiamo un gol banale del Diez, un tap in elementare, un colpo fortunato di ginocchio. No, ogni tratto di pennello doveva arricchire la Cappella Sistina della sua carriera. Come quella punizione contro la Juventus, odiato simbolo del potere industriale e calcistico, club che ha sempre ammirato il Michelangelo del calcio ma con il ciglio alzato, tanto era distante dal proprio modo di essere. 3 novembre 1985, il San Paolo ribolle d’amore per il suo Masaniello. Che ricambia con una cosa ancora oggi inspiegabile per le leggi della fisica: la punizione è da 15 metri, poco entro l’area verso la destra. Scirea e Cabrini si staccano dalla barriera, arrivano a due metri da Diego.
Il muro bianconero è composto da altri sei uomini. La “luce”, lo spazio dove mettere la palla è nullo. Eppure quel sinistro la tocca in maniera tale che la palla si impenna a pochi millimetri dalle teste juventine e ricade nell’angolo alto, dove Tacconi non può arrivare. Mai uguale a sé stesso, mai banale. Una lama di luce che torna e ritorna. E riemerge anche dal buio di una vita e di una carriera piena di zone d’ombra.
L’ultimo flash è del 1994, mondiali americani: contro la Grecia un controllo sublime e un tuono di collo sinistro nel sette. E poi la corsa, quel ghigno terrificante alla telecamera. Bello e terribile. Non sapevamo, noi, che sarebbe stato l’ultimo.


