75 ANNI DI ALAN: ERAVAMO TUTTI FIGLI DELLE STELLE

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“Senza storia, senza età, eroi di un sogno”.
Profetico, Alan Sorrenti: lui, ancora oggi, non ha età. Anche se tra due giorni taglia il traguardo dei 75 anni, e per noi ragazzi di allora sembra impossibile. Ed è stato l’eroe di un sogno, sì.
Perchè i nonni di 80 anni, gli zii di 60, i genitori di 40 e i ragazzini di 15 le cantano, quelle strofe. Così eteree, sospese, leggere da non avere un’età: le stelle non hanno carta d’identità, accarezzano l’eternità troppo grande per essere codificata, regimata.
Figli delle stelle, estate 1977: il primo vagito dell’italo disco, il primo brano dance cantato in italiano: qualcosa che non entrerà probabilmente nel grande romanzo della musica di ogni tempo, ma che si è fatto largo nel nostro cuore e qui alberga, da quasi mezzo secolo. Figli delle stelle. Boom.
Una deflagrazione, un mantra, un ritornello che colpì al cuore quell’Italia che aveva disperato bisogno di leggerezza, di disimpegnati sorrisi in anni pesanti, cupi, minacciosi, grigi come il piombo. Ogni giorno leggere un giornale era come immergersi in un incubo, le strade lastricate di sangue, la cruda violenza, la lotta di classe portata alle estreme conseguenze, i giovani sempre più inquieti, le disuguaglianze in quell’Italia da pochissimi mesi a colori.
E così quel testo esplicitamente lieve, senza alcuna concessione all’impegno politico e sociale, che parlava di amore, di stelle che si reincontrano nel tempo, era quello che ci voleva.
Una piccola, innocente oasi. Parole eteree, semplici senza troppo pretendere, che volavano e facevano volare: “Come due stelle noi, soli nella notte noi ci incontriamo”, “il vento spegnerà il fuoco che si accende quando sono in te, quando tu sei in me”. “Addio ragazza ciao, io non ti scorderò, dovunque tu sarai, dovunque io sarò”.
Alan, napoletano di madre gallese, vissuto a lungo nel Regno Unito dal quale aveva assorbito umori e suoni, vinse facile, in quel 1977. Il pezzo, introdotto da un pianoforte dolcissimo e classicheggiante e subito dopo da una sapiente escursione di chitarra elettrica, aveva una base dance semplice ma di sicuro effetto sotto le luci stroboscopiche.
Un successo registrato a Los Angeles, con alcuni dei migliori musicisti a stelle e strisce, nato così, per far ballare, magari all’aperto, sotto quelle stelle che Sorrenti, un poco ruffianamente, raccontava. E fece ballare tutti, non solo in quel 1977, ma per il mezzo secolo a venire, sul filo di una dichiarata, e bruciante, nostalgia.
Successo clamoroso, improvviso, debordante. In testa alle classifiche per settimane, tambureggiato dalle radio a ciclo continuo. Note che avvolgevano il mare d’estate e addolcivano il vento sferzante dell’inverno. Soltanto un pezzo riuscì a scalzare Figli delle Stelle dal trono, e non un pezzo qualunque: Stayin’Alive dei Bee Gees, altro manifesto di un’era.
Alan Sorrenti, nato a Napoli il 9 dicembre del 1950, divenne il simbolo di quella voglia di uscire dal tunnel. Aveva iniziato con una vena progressive che piaceva, e molto, a una nicchia di ammiratori, e quando virò decisamente sul pop melodico venne aspramente criticato, accusato di una sorta di tradimento artistico.
Ma lui, capelli lunghi sulle spalle come da moda dell’epoca e baffo ammiccante, abiti bianchi larghi, fluttuanti, se ne fece una ragione. E continuò su quella strada con “Donna Luna”, “L’unica donna per me” e “Non so che darei”.
Musica di facile ascolto, ma a quel tempo non era un peccato, una diminutio. Alan lo sapeva e con i suoi abiti bianchi, quelli con cui fluttuava nel nulla come nel video di Figli delle stelle, attraversò la porta del successo a testa altissima. Anche quando, fatalmente, i gusti del pubblico approdarono su altri lidi, anche quando la vita gli presentò il conto (fece anche un mese di carcere, accusato dall’ex moglie di una brutta storia di stupefacenti) lui, il napoletano gallese, rimase fedele a se stesso, a quel falsetto ostentato e sbandierato, a quell’immagine, a quei vestiti bianchi, a quella leggerezza. Che è stata, in quegli anni, anche la nostra.
Ha raccontato, Alan, che una sera incrociò per strada una comitiva di quindicenni che cantavano a squarciagola “Figli delle stelle”, e guardandolo distrattamente non sapevano, non potevamo sapere che quello strano signore dai capelli sempre lunghi e dagli occhiali azzurrati era proprio lui, menestrello di quel sogno a occhi aperti.
Eravamo tutti figli delle stelle, in quel 1977, e magari – ottantenni, sessantenni, quarantenni, ragazzini – lo siamo ancora, in qualche nicchia della nostra anima.