Epatite D: cos’è e come si cura

0
56

Può avere un decorso rapido e grave: più delle malattie «cugine». L’epatite Delta è l’infiammazione del fegato provocata dalla contemporanea presenza di due virus: l’HBV e l’HDV. Quest’ultimo è infatti considerato un virus «difettivo». Può cioè infettare una persona e provocare la malattia soltanto se compresente con l’agente che provoca l’epatite B.

Questo aspetto, unito all’esiguità dei casi, comporta una scarsa conoscenza della malattia. Di cui oggi, alla vigilia del congresso nazionale dell’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato (Aisf) in programma a Roma, si parla per l’arrivo di un nuovo farmaco (bulevirtide) in grado di bloccare la replicazione del virus, ridurre il ricorso al trapianto e aumentare la sopravvivenza dei pazienti.

Epatite D: di cosa si tratta? 

Nel mondo sono tra i 10 e i 20 milioni le persone affette da epatite B. Circa il dieci per cento di loro ha una coinfezione da HDV, il virus scoperto nel 1977 dal gastroenterologo torinese Mario Rizzetto. In Italia – anche se in molti non ne sono consapevoli – l’epatite Delta colpisce all’incirca quindicimila persone. La diagnosi si basa sulla ricerca degli anticorpi contro l’HDV (anti-HDV). E, nel caso di positività, sulla ricerca del materiale genetico circolante (Rna). «Stiamo parlando della forma di malattia più severa, che progredisce fino a dieci volte più rapidamente rispetto all’epatite B – afferma Alessio Aghemo, responsabile dell’unità operativa di epatologia dell’Istituco Clinico Humanitas di Rozzano (Milano) e segretario dell’Aisf –.

L’infezione provoca un’infiammazione cronica che genera la necrosi del tessuto. E le cellule epatiche vanno incontro a mutazioni genetiche, che alla fine determinano un clone cellulare che si espande fino a diventare epatocarcinoma». Se per l’Epatite B esistono trattamenti efficaci, finora non si è potuto dire altrettanto per la Delta. Inoltre, vi è il problema della rilevazione. Meno di 1 paziente su 2 con l’infezione da HBV viene infatti testato per la Delta. «Questo fa sì che vi sia un notevole sommerso e che le diagnosi siano spesso tardive», aggiunge Aghemo. Senza trascurare il rischio legato alla trasmissione del virus – per via parenterale e sessuale – tra coloro che non hanno la vaccinazione anti-HBV.