Oggi è ancora uno dei dirigenti più ascoltati nella sinistra italiana, anche grazie alle sue storiche metafore, che ne hanno fatto un personaggio televisivo, come quella della «mucca in corridoio» che poi era la destra ma che la sinistra non voleva vedere. Con lui parliamo della guerra e non solo di quella.
Allora, Bersani, a che punto è la notte?
«Al momento mi pare molto buia, direi nera. Ma non bisogna scoraggiarsi, prima o poi si aprirà un negoziato che dovrà portare al cessate il fuoco e poi alla pace».
Nel frattempo, il leader ucraino ha parlato anche di fronte al nostro Parlamento, dopo essere intervenuto a quello britannico, al Congresso americano, al Bundestag tedesco e alla Knesset israeliana. Che impressione le ha fatto?
«È stato un discorso importante perché moderato: non ha fatto riferimenti alla nostra storia come aveva fatto, sbagliando, in Israele. Ha toccato i tasti giusti per noi italiani: il cuore, la famiglia, l’accoglienza, l’umanità. Insomma, ha insistito più sul lato sentimentale che non su quello bellico. E non si è spinto su altre richieste, come quella sulla No Fly Zone che per l’Occidente è irricevibile, visto il rischio che comporterebbe: una guerra mondiale e quindi nucleare. Invece ha chiesto di aumentare le sanzioni, e ha fatto bene».
E la reazione del Parlamento italiano è stata positiva?
«Molto positiva, l’Italia vuole rafforzare il suo aiuto alla resistenza ucraina, come ha detto il premier Mario Draghi subito dopo il discorso di Zelensky».
«lo su questo sono molto netto: non possiamo decidere noi se loro devono resistere o no. Trovo molto cinico il discorso di chi dice che è meglio se si arrendono. Solo loro possono deciderlo, ma finché non lo decidono la nostra linea è aiutarli ad aiutarsi. Che significa mandare armi e intensificare le sanzioni contro Putin, ma senza andare oltre».
Che vuol dire oltre?
«Non dobbiamo promettere agli ucraini altre iniziative, come l’entrata in guerra dei Paesi della Nato. Sarebbe la catastrofe mondiale. Quindi bisogna evitare a tutti i costi che si verifichi un’escalation: insomma sì alle armi, sì a sanzioni più dure, sì ovviamente all’accoglienza dei profughi, ma poi ci si ferma e si negozia la pace. Altrimenti, bisogna imboccare un’altra strada».
Cioè la resa del popolo ucraino?
«Esatto, ma questa opzione io non la prendo nemmeno in considerazione perché ripeto non siamo noi che possiamo dir loro di arrendersi. Invece possiamo scegliere di rinunciare totalmente al gas russo: ci mettiamo al freddo, chiudiamo un po’ di fabbriche e non diamo più un soldo a Putin. Anche questo è un modo per aiutare la resistenza, ma nessuno di noi è disposto a fare un sacrificio del genere, rinunciando al proprio modello di vita».
Nel frattempo però aumentiamo le spese militari, lei ha votato a favore?
«Nel tragico, spunta sempre il ridicolo. Si fa polemica su un ordine del giorno che sostanzialmente conferma un impegno preso nel 2014 e sempre disatteso. Se parliamo seriamente, io penso che dopo l’Ucraina il mondo non sarà come prima e l’Europa dovrà darsi un nuovo modello di difesa».
«È un rischio che non si può eliminare del tutto, ma va governato. Se adesso c’è una resistenza si può immaginare realisticamente che a un certo punto arrivi il momento giusto per negoziare. Magari quando il presidente russo sarà più debole, grazie agli ucraini che resistono e alle sanzioni dell’Occidente, e si renderà conto che ovviamente non può perdere ma non può neanche vincere. In quel preciso momento le armi dovranno lasciare il posto al negoziato».


