In settimana l’attesissimo dato di inflazione per il mese di marzo negli USA è salito all’8.5% annuo dal 7.9% di febbraio, sui massimi da fine 1981
La crescita dell’indice dei prezzi è stata dell’1.2% su base mensile, tasso più elevato dal 2005. Tuttavia, c’è un elemento positivo nei dati che ha supportato i mercati e fatto pensare che il picco possa essere stato raggiunto: l’inflazione core ha segnato un rialzo di solo 0.3% mensile (sotto le attese), il livello più basso degli ultimi sei mesi. Questo rappresenterebbe un parziale rallentamento della corsa dei prezzi in grado di smorzare l’aggressività della Fed sulla sua stretta monetaria anche se bisognerà attendere i dati dei prossimi mesi per valutare davvero la tendenza.
Il dato headline (ai massimi dal 1981) è stato chiaramente sostenuto da energia e alimentari, le componenti più volatili: malgrado ciò, alcune case si sono spinte a prevedere che, complice l’arrivo di effetti base nei prossimi mesi, l’inflazione potrebbe essere vicina al picco.
La pubblicazione congiunta dei salari orari “reali” evidenzia bene l’impatto dell’inflazione sui redditi: dopo l’impennata degli stessi osservata durante il Covid grazie all’iniziale crollo dei prezzi, si è solo più assistito a una continua e brusca discesa su minimi assoluti (il tasso di crescita dei salari reali è ampiamente negativo), con seria minaccia per il potere d’acquisto e per i consumi derivante dal calo del reddito disponibile. Non è un caso, infine, che la consumer confidence a livello globale sia collassata a livelli di 2 anni fa.
In seguito, il PPI USA (prezzi alla produzione di marzo) non ha però offerto il medesimo sentore di “vicino al picco” che aveva dato il CPI. I numeri sono tutti superiori alle attese e, in particolare, non si nota il rallentamento dei prezzi dei beni con due implicazioni: innanzitutto è improbabile che l’inflazione possa scendere molto, se i prezzi in input per le aziende continuano a salire a questo ritmo. In secondo luogo, il dato PPI può indicare un iniziale difficoltà delle aziende a passare a valle gli aumenti dei costi. Ad esempio, Bed, Bath & Beyond ha riportato dati deludenti e messo in guardia su un possibile calo della domanda.
Gli impatti del rialzo dei tassi (conseguenti all’inflazione) potrebbero non notarsi solo sulla domanda di beni, ma starebbero impattando anche il mercato immobiliare: alcuni analisti hanno iniziato a sottolineare il repentino aumento delle scorte di case, e un poderoso cambio della dinamica. Da marzo in poi le scorte hanno cominciato ad aumentare bruscamente.
Venendo alle banche USA notiamo che l’atteggiamento aggressivo della FED sta pesando sull’outlook macro: questo è in particolar modo evidente nel fatto che il settore bancario non sta traendo alcun vantaggio dalla salita dei rendimenti e anzi la divergenza fra il suo andamento e quello dei tassi si sta allargando. I risultati di JP Morgan sono emblematici: il danno principale è arrivato dai maggiori accantonamenti effettuati per coprire eventuali perdite future sui crediti e dai deludenti risultati del trading.
Anche le banche europee, che più hanno dovuto patire il livello dei tassi, andato in negativo, hanno smesso di beneficiare del rialzo dei rendimenti in Eurozona proprio quando il mercato ha iniziato a scontare un ritorno in positivo del depo rate, entro fine anno. Fa riflettere la circostanza che un settore così esposto al livello dei tassi non stia incorporando la normalizzazione della politica monetaria.


