Anche questa è inflazione, ma è più pericolosa perché è strisciante e si cela dietro alla frequenza d’acquisto di un determinato bene. Ma prima di rendersene conto passano giorni, spesso settimane.
Nel mondo anglosassone si chiama “shrinkinflation”, in Italia si chiama più semplicemente “sgrammatura”. E in fondo spiega molto bene il meccanismo con cui le marche – di ogni tipo e genere – scaricano sui consumatori l’aumento dei costi senza che questi percepiscano un reale incremento del listino. D’altra parte, come osserva Daniele Tirelli, professore di Economia esperto di marketing e fondatore di Amagi, società di ricerche di mercato, «a parte i pensionati e i cosiddetti “cherry-pickers” (i cacciatori di offerte, ndr), la gente raramente controlla i prezzi dei prodotti che ha appena comprato». Anche per questo, probabilmente, i brand si fanno pochi scrupoli.
Eppure sono diversi i marchi che preferiscono intervenire sulla grammatura delle confezioni. Il primo a lanciare l’allarme è stato, a fine gennaio, l’ad del gruppo VeGè, Giovanni Santambrogio, che in un intervento online disse: «Ci sono aziende che dopo aver chiesto gli aumenti di listino alla grande distribuzione continuano a sgrammare del 5, 10 o 20% il contenuto dei prodotti chiedendo di non cambiare i prezzi». E poi ha aggiunto: «Lo fa Ferrero con Nutella, Barilla con la nuova pasta al bronzo e lo yogurt Fage».



