DOMENICO DE MASI: Di Maio sposa i perbenisti, Conte guardi a sinistra

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La vicenda dei 5Stelle continua a offrire materiali di studio a chi, come me, sia interessato scientificamente all’evoluzione dei movimenti sotto il profilo sociologico. Tutti i partiti nascono come movimenti e quasi tutti i movimenti tendono a diventare partiti anche se non tutti ci riescono. I 5Stelle, nei loro 13 anni di marcia verso la forma partitica, sono riusciti a esprimere non uno ma più gruppi (Paragone, Giarrusso), ognuno dei quali aspira alla consistenza di partito.

Le condizioni perché questo avvenga compiutamente sono molteplici. Occorre anzitutto un’idea originale, un modello di società inedita da proporre e realizzare; occorre poi un potenziale segmento di mercato politico da aggregare intorno a questo modello, in base a pulsioni ideologiche e interessi concreti; occorre un leader possibilmente carismatico e un gruppo di avanguardia possibilmente coeso che, impersonando sia l’idea portante, sia l’organizzazione complessiva, elabori le strategie e fornisca le direttive; occorre un personale amministrativo che traduca le direttive in azioni organizzate; occorre una macchina comunicativa capace di alimentare il sistema informativo interno e le sue interazioni con l’esterno; occorre una precisa individuazione dei concorrenti e degli alleati; occorre un network di rapporti con tutto il macrosistema economico, politico, amministrativo, religioso e mediatico, nazionale e internazionale;

occorrono i mezzi finanziari per coprire le spese di tutto questo apparato tenendo conto che i movimenti possono contare sullo slancio disinteressato dei suoi membri mentre il partito costa perché basato sulla razionalità weberiana dei gruppi d’interesse.

Di tutti i leader politici attualmente in lizza, l’unico che ha cercato di definire compiutamente un paradigma teorico del suo partito è Carlo Calenda che ha affidato a ben tre libri la giustificazione del suo pensiero esplicitamente derivato dal liberalismo sociale e dal popolarismo di Sturzo. Il suo manifesto dichiara senza mezzi termini che “nessuno di noi assumerebbe uno degli attuali leader politici per gestire la sua attività” ma poi, al pari di tutti gli altri leader, snocciola il solito rosario dei peccati nazionali (cinismo, analfabetismo, populismo, sovranismo, ecc.) e dei rimedi taumaturgici (federalismo, ambientalismo, riformismo…).

Il “manifesto” di Di Maio, esposto martedì, è un remake di quello di Calenda, che a sua volta è un remake più spocchioso e leggermente più colto di quello di tutti gli altri manifesti che increspano l’ovvietà dell’arco politico italiano. Rifiutando il radicalismo, che lo aveva innalzato al 33%, Di Maio rientra nei ranghi del perbenismo borghese, in quel recinto che negli ultimi tempi ha lodato la sua “maturazione” e che ora, dopo averlo addomesticato, si appresta a sbranarlo.

Fuori del recinto resta Conte con i tre quarti dei 5Stelle. Sono pochi o molti per farne un partito di belle speranze? Dipende in gran parte da Conte, perché tutte le condizioni enumerate sopra valgono anche per lui. I settori dell’emiciclo politico sono tutti affollati, tranne quello in cui dovrebbero trovare voce e difesa i 12 milioni di poveri, precari, disagiati che il neoliberismo si incarica di ingrossare di giorno in giorno. L’ultimo che se ne interessò fu Berlinguer e il suo Pci; gli onesti partitini a sinistra del Pd non riescono a intercettarli; il Pd li ignora, infarcito com’è di neoliberisti.

Ora Conte si è liberato di quasi tutta l’opposizione interna, ha disegnato la struttura del suo partito e ha designato i quadri. È come se avesse progettato un edificio senza però sapere in anticipo quale sia la sua destinazione d’uso. È questo ciò che ora egli deve esplicitare a se stesso e ai suoi seguaci, con estremo coraggio politico.

Dire senza retorica quale società inedita intende costruire, ritagliare con precisione i ceti sociali cui intende rivolgersi, confessare con quale livello di radicalità intende procedere dopo avere scelto definitivamente l’unico campo disponibile e giusto: quello a sinistra del Pd. Stringere poi i contatti necessari con tutti gli interlocutori internazionali, a partire da Mélenchon.

DOMENICO DE MASI