Il mercato sembra ormai essere passato dalla paura per l’inflazione al timore di un peggioramento delle aspettative di crescita globale, cosa che si riflette, oltre che sull’azionario, sulle materie prime e sui rendimenti
Inoltre, questo sentiment generale sta facendo rientrare in fretta le aspettative di rialzo dei tassi delle banche centrali. Negli ultimi giorni, in particolare, i mercati stanno correndo a rivedere i percorsi di rialzo con la chiara idea che le BC non potranno effettuare tutti i rialzi che hanno programmato o che comunque il mercato prezzava nel momento di maggior pessimismo sull’inflazione. Ad esempio, i future sui Fed Fund scontano 40 bp in meno di rialzi a fine anno e un picco sotto il 3.5% quando due settimane fa era al 4.25%. Dal canto suo la curva europea ha “ritirato” oltre 100 bp di rialzi a 12 mesi e vede un tasso di arrivo a fine anno sotto l’1%, quando lo dava sopra appena 15 giorni fa. A certificare il clima di pessimismo sul rallentamento economico in atto si è messo pure il GDP Now della Fed di Atlanta che indica una contrazione del 2.1% dell’economia USA per il secondo trimestre.
Il calo delle commodities in scia al deterioramento delle attese di crescita è una buona notizia per l’inflazione in Europa che è una questione parecchio legata agli alimentari e all’energia e meno al resto dei componenti. Dato che il tentativo della BCE di controllarla attraverso i tassi rischia di essere inefficace, questo ribasso delle materie prime potrebbe dare una grossa mano e levare pressioni ai trend di crescita dei CPI.
Metalli industriali come materie prime agricole hanno sperimentato significative correzioni, ma i carburanti restano sostenuti e poi c’è ancora l’incognita delle forniture di gas russo e delle possibili sospensioni. Proprio la fiammata del gas naturale europeo dell’ultimo mese ha alimentato timori di una recessione in Germania e Eurozona entro un orizzonte di tempo più breve e con una maggiore intensità rispetto agli Stati Uniti dove la recessione è vista più in là nel 2023. Questo sfasamento temporale, unitamente all’allargamento del differenziale dei tassi a breve termine e in particolare sui 2 anni (la revisione al ribasso dei tassi in Europa è stta più forte che negli USA), sta causando l’indebolimento marcato dell’euro, con la divisa unica che è andata a segnare i nuovi minimi da dicembre 2002.
In questo contesto, performance relative e dinamica dei cambi mostrano chiaramente il distinguo operato dal mercato tra USA e Eurozone.
L’America ha una economia più robusta e chiusa, e indipendente energeticamente, è più lontana dal conflitto in Ucraina. L’inflazione sembra più vicina ad un picco. Un eventuale cambio di atteggiamento della FED (che è in anticipo rispetto alla BCE) avrebbe un effetto più incisivo.
L’Europa, d’altro canto, subisce la sua dipendenza energetica dalla Russia e l’economia è più fragile e dipendente dalla domanda globale. Il margine di manovra della politica monetaria è più ridotto (la BCE non ha ancora nemmeno iniziato ad alzare).
Ripetiamo che in caso di prosecuzione del calo delle materie prime in corso, questo dovrebbe riversarsi a breve nei CPI, calmando l’aggressività delle banche centrali e togliendo un fattore negativo per il ciclo economico.



