Non si può essere europeisti senza essere anche atlantisti. Le cose non stanno così, tantomeno oggi.
Essere “europeisti” significa lavorare per un’Europa più unita dal punto di vista politico di quanto non lo sia attualmente, smussandone gli estremismi alla Orban, e sufficientemente armata (leggi l’Atomica per ora in dotazione ai soli francesi) per non dover dipendere da pelose protezioni altrui (leggi Stati Uniti o domani magari, a seconda di come evolvano gli equilibri geopolitici internazionali, Cina), economicamente autosufficiente nei limiti in cui questo è possibile in un mondo divenuto globale.
Gli americani erano infatti gli unici ad avere il deterrente militare necessario per scoraggiare l’“orso russo” da pericolose avventure in Europa Ovest (per la verità questo è ciò che si faceva credere alla gente, perché a Jalta nel 1945, quelli che usiamo chiamare “i grandi della Terra”, Roosevelt, Churchill, Stalin, avevano già deciso quelle che erano le rispettive zone di influenza e ci volle il coraggio di Tito per creare il gruppo dei “Paesi non allineati” che non intendevano dipendere né dall’Urss né dal cosiddetto Occidente, ma seguire i propri interessi che non avevano niente a che vedere con quelli dei due blocchi).
Dopo il collasso dell’Urss (che nel frattempo aveva provveduto a soffocare nel sangue le rivolte che si erano create nel blocco sovietico, quella di Imre Nagy del 1956, quella di Dubcek nel 1968) la protezione degli Stati Uniti, che nel frattempo avevano utilizzato la vittoria militare nella Seconda guerra mondiale per mettere l’Europa in stato di minorità, militare, politica, economica e alla fine anche culturale, non era più necessaria.
Invece l’Europa si fece trascinare nella politica avventuristica americana, quella teorizzata dal primo Bush che ispirato dall’ideologo Fukuyama (La fine della storia e l’ultimo uomo) riteneva che il mondo fosse fatalmente destinato a “la Terra Promessa della Democrazia, della diffusione di una cultura generale del consumo, del capitalismo su base tecnologica”.
Gli europei si fecero perciò trascinare in guerre ideologiche che erano totalmente in contrasto con i loro interessi. L’esempio più evidente e clamoroso è stato la guerra alla Serbia del 1999. In Serbia si era creato un contrasto fra lo Stato serbo e la regione del Kosovo, da sempre politicamente e giuridicamente serba (anzi il Kosovo era considerato, per ragioni storiche, la patria della “nazione serba”) e gli abitanti dello stesso Kosovo che per ragioni di natalità erano diventati la maggioranza.
C’erano quindi due ragioni a confronto: quella della Serbia a conservare l’integrità del proprio territorio e quella degli indipendentisti albanesi, peraltro finanziati e armati dagli americani. È una situazione esattamente speculare a quella che c’è oggi fra Ucraina, Russia e Donbass. Le ragioni di uno Stato a conservare la propria integrità territoriale, cioè quella della Serbia, e l’indipendentismo kosovaro, così come oggi esiste il contrasto fra l’Ucraina e l’indipendentismo filo russo del Donbass. All’epoca gli americani decisero che la Serbia aveva torto e gli indipendentisti albanesi ragione e bombardarono per settantadue giorni una grande capitale europea come Belgrado.
Alla luce di questo precedente è difficile condannare oggi Putin perché bombarda Kiev che, sia detto con il dovuto rispetto, in epoca moderna è un po’ meno importante di Belgrado (Kusturica e Bregovich). I serbi uscivano da un’altra tragica esperienza, quella della dissoluzione della Jugoslavia. In particolare in Bosnia dove il maresciallo Tito era riuscito a tenere miracolosamente in piedi tre etnie che si odiano da sempre: croati, serbi e musulmani.
I serbi avevano vinto quella guerra un po’ perché, almeno a sentire chi se ne intende di queste cose, sono sul terreno (sul terreno non in una guerra di droni) i migliori combattenti del mondo (oggi forse lo sono gli Isis a cui non importa niente morire) un po’ perché appoggiati dalla madre patria serba, ma nella stessa situazione si trovavano i croati bosniaci appoggiati dalla Croazia. Nella posizione più debole si trovavano i musulmani che vivevano in Bosnia che non avevano un retroterra e avevano solo qualche appoggio dal lontano Iran.
La guerra slava aveva avuto un precedente. Alla dissoluzione della Jugoslavia i croati e gli sloveni chiesero, in base al sacrosanto principio dell’autodeterminazione dei popoli sancito a Helsinki nel 1975, l’indipendenza appoggiati dalla Germania e dal Vaticano.
. Così come non escludo che l’esercito di Belgrado aggredisca militarmente il Kosovo dove ai 50.000 serbi rimasti in quella regione (erano 360.000, la più grande “pulizia etnica” dei Balcani) è proibito anche di esser serbi e devono circolare con documenti kosovari. E non sarà loro difficile, ai serbi, sol che lo vogliano, spazzar via il contingente Nato (KFOR) costituito in maggioranza da italiani, noti combattenti.


