Cara destra invidiosa, giù le mani da Gramsci

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Protesa com’è nello sforzo di apparire più che mai moderna e omnicomprensiva, la destra nostrana è perfino disposta a sostituire l’anticomunismo con il luogocomunismo. Leggo che l’intellettuale più citato al convegno romano “Pensare l’immaginario italiano

Stati generali della cultura nazionale”, svoltosi alla presenza del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, è stato nientemeno che Antonio Gramsci. Sì, proprio lui, il segretario del Partito Comunista d’Italia, solo per questo condannato dal Tribunale Speciale fascista a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione il 4 giugno 1928. Cioè dieci anni prima delle leggi razziali.

Del grande intellettuale rivoluzionario alla destra piace – non da oggi – l’idea che la trasformazione della società necessiti, prima ancora della presa del potere politico, di una “egemonia culturale” a cui diano il loro apporto anche gli intellettuali capaci di instaurare un rapporto di sintonia con le classi subalterne.

Ci sarebbe da compiacersi del rinnovato interesse per l’opera gramsciana manifestato dagli eredi non pentiti della corrente politica che lo perseguitò fino alla morte. Non fosse che, nella loro accezione, l’egemonia culturale viene ridotta, per l’appunto, a luogo comune di natura cospirativa. Quasi che si trattasse di una subdola azione mirante al “dominio frutto di assenso, persuasione e vicinanza da parte degli intellettuali organici al popolo-nazione”. Così la casa editrice Historica storpia Gramsci nel presentare un’antologia dei suoi scritti sull’egemonia culturale.

Potessimo adoperare ancora un concetto psicoanalitico freudiano dai tratti misogini, diremmo che siamo in presenza di un tipico caso di invidia del pene. Meglio farebbero, gli intellettuali di destra, a convocare un convegno sulle colpe storiche del fascismo. Nell’attesa, il povero Gramsci si rivolta nella tomba.

GAD LERNER