Le simulazioni indicano che i tre miliardi di sconto sul costo non salariale del lavoro dipendente, sulla componente relativa cioè ai contributi sociali, farà risparmiare, nel periodo tra maggio e dicembre, 41 euro al mese per otto mesi per i redditi lordi fino a 25.000 euro; beneficio che scende a 30 euro se lo stipendio si situa fra i 25.000 e i 35.000 euro
Sebbene detto beneficio sia cumulativo con quello già introdotto in sede di ultima manovra di bilancio, quanto contenuto nel Def, il documento di economia e finanza varato lunedì pomeriggio dal governo Meloni, ha disilluso parte delle attese del mondo sindacale e del lavoro, e suscitato i commenti non favorevoli di analisti e studiosi della materia.
Il giudizio unanime, o pressoché tale, è che la riduzione temporanea degli oneri sociali non sarà efficace nella lotta all’inflazione, poiché consiste in una sorta di fiscalizzazione di una parte della quota fiscale del costo del lavoro, introdotta con la speranza di assicurare la pace sociale per il lasso di tempo necessario a che, sperabilmente, la pressione inflazionistica si attenui entro la fine del 2023 e non imponga interventi di rincorsa dei prezzi sul modello delle scale mobili dello scorso secolo.
Secondo alcuni analisti, è come se il Governo avesse, per i redditi lordi medio bassi, deciso di subentrare ai datori di lavoro nella responsabilità di accordare un aumento a scadenza della busta paga, a copertura di un 2023 che rimarrà difficile per l’economia reale nonostante una proiezione nella dinamica andamentale del PIL superiore alle attese originarie.
Pur con sfumature diverse dal punto di vista dei contenuti delle proposte alternative da esibire al governo Meloni, i tre principali sindacati – Cgil, Cisl e Uil – hanno ribadito che maggio sarà un mese di mobilitazioni, e che risulta al momento inascoltata la proposta di procedere a una detassazione degli aumenti retributivi introdotti dalla contrattazione collettiva nazionale così come da quella decentrata su base aziendale.
Del resto, le evidenze più recenti confermano che oramai neppure più i livelli salariali minimali orari previsti dai contratti più rappresentativi sono sufficienti a consentire trattamenti economici dignitosi, tanto che la stessa magistratura ha cominciato a muoversi con pronunciamenti tesi a dichiarare illegittime alcune previsioni retributive e a richiamare le parti, datoriali e sindacali, al rispetto del titolo terzo della nostra Costituzione sui rapporti economici.
Quello di Giorgia Meloni non è il primo tentativo di cercare di aumentare il peso dei cedolini dei lavoratori di qualifica più bassa o comunque percettori di salari inchiodati nella zona bassa della classifica stipendiale. Nel 2014 l’allora Premier Matteo Renzi introdusse un bonus sul lato Irpef che a tutt’oggi è stato perpetuato, sebbene con limitazioni circoscritte ai redditi da lavoro dipendente fino a 15.000 euro annui, che danno diritto a 1200 euro addizionali all’anno in busta paga.
Non è un accostamento casuale, quello che facciamo tra il capo del Governo dell’epoca e quello di oggi: infatti, dal momento che è in discussione la delega fiscale che dovrà essere approvata dal Parlamento dopo il via libera deciso da palazzo Chigi e firmato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Giorgia Meloni nei prossimi mesi dovrà scegliere su quale dei due pilastri agire per garantire un più alto potere d’acquisto all’interno della cosiddetta moderazione salariale. Intervenire sull’Irpef, di cui il 90 per cento del gettito pesa su lavoratori dipendenti e pensionati, o spingere ancora di più sulla fiscalizzazione degli oneri sociali?



