Sessantasei anni e tre Oscar (sei candidature): Daniel Day-Lewis, nato a Londra il 29 aprile 1957, viene celebrato oggi come uno dei più grandi attori della storia del cinema. Nonostante si sia ormai ritirato dalle scene: lo aveva annunciato nel 2018, dopo essersi ritirato anche dal teatro quasi trent’anni prima.
Di attori come lui, preziosi e illuminati, ce ne sarebbe sempre bisogno. E forse anche per questo, oggi che compie 66 anni, Daniel Day-Lewis resta un esempio, un faro, un modello per generazioni di attori. Un metodo, il suo, originale e da vero “interprete”, proprio come colui che non si limita a “fare” un personaggio ma che si trasforma, letteralmente, anima e corpo, nella figura a cui presta il volto e la voce.
Alcuni esempi: per il film L’insostenibile leggerezza dell’essere (1988) imparò la lingua ceca senza uscire dal personaggio per gli otto mesi di riprese. Così come per Nine (2009), ispirato al felliniano 8 e ½, imparò l’italiano, lui che è di madrelingua inglese, figlio di un poeta e scrittore con origini irlandesi e di un’attrice di prosa di origini ebraiche.
Un metodo da Actor’s Studio, il suo, pur avendo studiato al Bristol Old Vic della città natale (la sua formazione originaria è quindi teatrale). Per il ruolo di Christy Brown ne Il mio piede sinistro, il film di Jim Sheridan che gli valse (nel 1989) il primo Oscar come miglior attore protagonista, si faceva imboccare, portare in bagno o a letto, proprio come un autentico invalido. Per interpretare il pittore irlandese che aveva il solo uso del piede sinistro per dipingere, infatti, imparò ad usare l’arto per reggere un pennello o una penna, arrivando ad incrinarsi due costole per la scomoda posizione che aveva assunto durante tutte le riprese.
Insomma, una sfida ad ogni ciak: per L’ultimo dei Mohicani (1992) ha imparato a cacciare nella foresta e a costruire canoe; per Nel nome del padre (1993) ha passato notti intere in isolamento in una prigione abbandonata, rimanendo sveglio tre giorni di fila prima della scena dell’interrogatorio. Per La seduzione del male (1996) si costruì da solo una casa in legno e non si lavò per tre mesi.
E poi, ancora: per girare The Boxer (1997) si allenò un anno e mezzo con un ex pugile. In Gangs of New York, capolavoro di Martin Scorsese del 2002, diventò apprendista macellaio per imparare il mestiere e saper tagliare la carne, senza coprirsi con vestiti pesanti nonostante il freddo (in quanto non sarebbero stati coerenti con il periodo storico in cui era ambientato il film); una scelta fatale: si ammalò di polmonite, senza peraltro curarsi con farmaci moderni.
Per il secondo Oscar, vinto con Il Petroliere (2007), imparò a usare i vecchi macchinari per estrarre il petrolio, rompendosi anche una costola (per la seconda volta): non voleva controfigure. La terza statuetta come miglior attore protagonista arriva cinque anni dopo con Lincoln (di Steven Spielberg): è arrivato a imparare l’accento esatto del presidente degli Stati Uniti e ha soggiornato nei luoghi dove questi era nato e cresciuto
. Per tutto il film si faceva chiamare Mr president da Spielberg e dalla troupe, proprio come se fosse il capo della Casa Bianca assassinato nel 1865. Per Il filo nascosto, ultimo film che ha interpretato, nel 2017, si è cucito da solo un intero abito di sartoria, tutto a mano.



