In fin dei conti, una tempesta di polemiche politico sindacali in un ditale pieno d’acqua
Il decretone Lavoro del Governo Meloni, varato nella data simbolo del primo maggio con un vasto collegato di normative che dovranno essere vagliate dal Parlamento, si è risolto in un provvedimento che, per quanto assai articolato e omnibus, dove si abbina il cuneo contributivo alla riforma dei sussidi contro la povertà, consiste né più né meno che in un tavolo a due gambe il quale, come tale, rischia di non reggere ai venti della crisi mondiale destinata a protrarsi oltre il prossimo autunno.
La prima gamba è il mantenimento della promessa dei Fratelli d’Italia in campagna elettorale nello scorso settembre: lo smantellamento del decreto dignità del 2018 di Conte, Di Maio (e Salvini), che introdusse il reddito di cittadinanza e il limite sia alle causali per autorizzare ulteriori contratti a termine, sia al ricorso ai voucher per i picchi stagionali (cosiddetto lavoro a chiamata) in agricoltura e turismo.
Obiettivo raggiunto ieri: il reddito di cittadinanza sarà sostituito da due sussidi di più basso importo e di minore durata, uno dedicato al sostegno dei non occupabili, l’altro rivolto a chi occupabile è e quindi dovrà aderire a un piano di attivazione formativa e occupazionale concordato con i servizi sociali e all’impiego.
Inutile ricordare che il successo di una simile decretazione dipenderà quasi esclusivamente dalla capacità del Governo di promuovere una effettiva riorganizzazione efficientista con annesso potenziamento dei competenti uffici comunali (sono infatti i municipi a gestire spesso in forma consorziata i servizi socio assistenziali) e dei centri per l’impiego; rispetto a questi ultimi, permangono le incertezze sul ruolo delle Province e sulle dotazioni economiche che verranno messe a disposizione di questi enti destinati a tornare in regime di elezione diretta dei presidenti e dei consigli provinciali.
In pratica, a un welfare statico, palazzo Chigi ha cercato di opporre un abbozzo di workfare dinamico i cui contorni prospettici sono tutti da chiarire poiché trattasi di una rivoluzione culturale che non può essere conseguita a costo zero o a risorse invariate, o semplicemente dimezzando le voci puramente assistenziali per dedicare l’altro 50 per cento di un budget già esistente a politiche di avviamento coattivo alla formazione e al lavoro.
La seconda gamba è quella relativa alla concentrazione degli aiuti. Già la legge di stabilità e bilancio approvata a dicembre 2022 aveva indicato una prima traiettoria poi confermata nella prima parte del corrente anno: ridurre la galassia dei bonus ereditati per riattivare, in maniera giusta e doverosa, il meccanismo della rivalutazione degli assegni INPS dei pensionati già in essere in modo da aiutarli a fronteggiare il rincaro del costo della vita e a farsi carico dei familiari più giovani, figli e nipoti, in difficoltà di liquidità e di lavoro e non supportati dalla mano pubblica (difficoltà rimaste anche quando le pensioni dei loro anziani erano state congelate dalla Fornero).
Il decreto del primo maggio ha riprodotto tale filosofia con riferimento al cuneo contributivo (non anche a quello fiscale, dal momento che le maggiori quote di salario a disposizione saranno al lordo dell’imposta Irpef): a essere oggetto di fiscalizzazione, infatti, saranno gli oneri contributivi a carico dei lavoratori dipendenti già tutelati dagli attuali contratti collettivi nazionali maggiormente rappresentativi, mentre con riferimento alla promozione di nuove opportunità occupazionali, il provvedimento rimanda ai contratti a termine, ai voucher stagionali e a qualche incentivo volto a favorire assunzioni di persone vulnerabili tramite il riconoscimento di uno sconto contributivo.
Sotto questo secondo aspetto, si tratta di una direzione opposta a quella auspicata a livello internazionale dai Ministri del lavoro dei Paesi del g7 – Italia compresa – e delle Nazioni aderenti all’Ilo, l’organizzazione internazionale dell’ONU in tema di strategie lavorative globali: fare in modo che il lavoro a termine ovvero occasionale sia, sul piano economico e normativo, reso meno conveniente del ricorso al lavoro stabile e duraturo.
In conclusione, possiamo facilmente argomentare che il decreto del Primo Maggio del governo di centrodestra rafforza le tutele di chi già le ha, peraltro con una manovra di maquillage contabile poiché rende più sostanzioso ai mass media l’importo medio mensile della maggiorazione in busta paga, poiché la stessa decorre non più da maggio a dicembre ma da luglio a dicembre, omettendo tuttavia di rimarcare che aumenterà nello stesso tempo l’imponibile e quindi la tassazione ai fini Irpef (dove non ci sono risorse a sgravio).
Per il resto, si tenta di avviare il Paese sulla via di un workfare ma senza avere le risorse dei bilanci dei Paesi nordici o anglosassoni.
Un provvedimento non molto dissimile, nel merito, dai decreti Prodi Treu e Berlusconi Maroni e Renzi Poletti: più flessibilità su chi deve ancora affacciarsi sul mercato del lavoro e delle assunzioni, qualche agevolazione per chi invece ne fa o ne ha fatto parte a pieno titolo.
Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI




