È la nostra cultura che giustifica il femminicidio

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Un femminicidio così efferato come quello di cui è vittima Giulia Tramontano ha occupato l’informazione nei giorni scorsi, riportando l’attenzione su un tema che conosce picchi alterni in concomitanza con i casi di cronaca nera.

Come sempre si è rinfocolato il dibattito su cause e rimedi. Fatto privato o piaga sociale? fenomeno ineluttabile o evitabile? Caso ordinario o eccezione mostruosa? Cerco qui di sintetizzare quanto so e quanto penso di aver capito sullo “stato dell’arte”.

Violenza e disuguaglianze di genere

La violenza nelle relazioni, in special modo la violenza da parte di un partner, è la forma di violenza più comune. Nelle vite delle donne supera la frequenza di ogni altro tipo di abuso. Gli autori sono uomini molto diversi. Nessuna ricerca ha rilevato specifici indicatori di rischio: né l‘etnia, né l’età, né le condizioni socio-economiche e culturali, né una specifica condizione psico-patologica. Non sono storie lontane da noi. Non sono malati, pazzi o mostri. Dati come questi furono portati alla luce in Italia dall’Indagine multiscopo sulla sicurezza delle donne condotta dall’Istat nel 2006 per volontà di Linda Laura Sabbadini, pioniera delle statistiche di genere: prima di quella data agli occhi delle istituzioni il fenomeno non esisteva.

Ci dicono che non si tratta di un fenomeno emergenziale da affrontare esclusivamente con misure securitarie. È una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne e produce danni e sofferenze fisiche, sessuali e/o psicologiche, la coercizione e la privazione di libertà, fino ad arrivare al furto della vita stessa.

Solo individuando le cause strutturali della disuguaglianza di genere è possibile affrontare adeguatamente la questione. Per affrancarci da una mattanza che una storia antica ci ha consegnato è necessario un progetto comune a un’intera collettività, ossia un cambiamento di valori e di gerarchie rispetto alle regole invisibili di una tradizione patriarcale dura a morire.

Una cultura che giustifica la violenza maschile

L’impegno quotidiano di chi affronta il femminicidio continua a scontrarsi con un muro di gomma fatto di stereotipi, di luoghi comuni, di pregiudizi. A molti offre un alibi. A molte offre un’illusione, “a me non capiterà mai”, che facilita la rimozione. Alcune magistrate hanno dimostrato che arriva fino a lambire le aule dei tribunali.

Veniamo da una cultura che per millenni ha giustificato la violenza maschile sulle donne: lo facevano le leggi e le sentenze, i confessionali, la letteratura colta e la saggezza popolare. Da millenni le famiglie insegnano alle figlie come fare a non essere violentate anziché insegnare ai figli non violentare.

La società, nonostante indubbi progressi, mostra ancora difficoltà significative a sostituire il modello patriarcale con nuove prassi relazionali; perdura nei maschi, anche adolescenti, la convinzione di essere i proprietari del corpo femminile. Ha trascurato di insegnare fin da piccoli il rispetto dell’altra; non ha fatto capire fino in fondo che “no” significa “no”. Più largamente ha creato una connessione molto forte tra l’identità maschile e la dimensione del potere.

Dominio e possesso

Troppo facile, persino liquidatorio ripetere “questo non è amore”, come se non conoscessimo legami perversi, amori malati, passioni abusanti, abbracci mortali. Si devono smentire gli stilemi romantici: l’amore non arma le mani, non distrugge, non nega la vita; lo fanno il dominio e il possesso. Nel momento in cui la partner introduce nella relazione la volontà di non essere un oggetto in balia altrui, questo cambiamento viene vissuto come affronto facendo emergere l’aspetto oscuro della cultura, la vendetta e la violenza distruttiva.

Molti assassini si suicidano dopo aver compiuto il femminicidio. Distruggono se stessi con l’oggetto di attaccamento (a volte coinvolgendo anche figli e figlie), poiché per loro non esiste distinzione tra i soggetti. Qui sta la loro “anormalità”, ma davvero è solo la loro? Questo dato agghiacciante parla delle patologie non di singoli, non di culture lontane e arretrate, ma di una cultura attuale, la nostra. Questo modello non appartiene al maschile per destino biologico ma per storia culturale. Su questa miseria dovrebbero interrogarsi gli uomini invece di svicolare, annacquare, rimuovere. Non tutti gli uomini sono violenti, ma la stragrande maggioranza dei violenti sono uomini. Domandando ‘perché?’ non rivolgiamo accuse ai singoli, ma al sistema simbolico che costruisce tutti e tutte, alle sue implicazioni violente che fanno male a tutti e a tutte.

Abbiamo tante volte letto, analizzato e denunciato i sottili o espliciti meccanismi che nel discorso pubblico contribuiscono a trasformare la violenza maschile sulle donne in un fatto privato, nell’esito di un conflitto, sottolineando le responsabilità o le disattenzioni di chi viene uccisa o aggredita e attenuando quelle dell’aguzzino o riportandole soltanto a devianze individuali. L’associazione delle giornaliste Gi.u.li.a, in particolare, ha molto contribuito (con il manualetto Stop violenza. Le parole per dirlo e con innumerevoli corsi di formazione) a diffondere un linguaggio corretto e consapevole tra gli operatori dei media. Anche quello che è conosciuto come “Manifesto di Venezia” (2017) raccoglie una serie di raccomandazioni, non sempre attuate.