SECONDO LA BCE NON C’È DUE SENZA QUATTRO

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Mentre seguita a fare discutere il più recente aumento apportato dalla Eurotower di Francoforte ai tassi di riferimento interbancari, per il prossimo mese di luglio viene paventato dagli analisti, e dagli stessi addetti ai lavori gravitanti intorno al direttivo presieduto da Christine Lagarde, un ulteriore rincaro del costo del denaro che salirebbe così al 4,25 per cento alla vigilia della pausa di agosto

Non c’è due senza quattro. No, non si tratta del titolo di un celebre film commedia d’avventura degli anni Ottanta. Questa volta si parla del riassunto del concetto messo in pratica dalla BCE con la più recente decisione di far lievitare i tassi per i prestiti di primo livello alle banche al 4 per cento, con l’obiettivo di scoraggiare la circolazione di liquidità monetaria al dettaglio verso famiglie e imprese e di riportare il tendenziale dell’inflazione al fatidico 2 prescritto dal trattato di Maastricht sull’Unione europea.

Una scelta, quella attuata dalla Banca centrale custode dell’Euro, che si muove in maniera del tutto indipendente, addirittura senza neppure tenere conto del mancato aumento disposto pochi giorni prima, oltre Atlantico, dai colleghi della Federal reserve di Washington guidata da Jerome Powell. Con l’ulteriore specifica che la crescita economica reale del vecchio Continente appare, pure nelle proiezioni a tutto il 2023, più modesta e contenuta di quella che presumibilmente verrà messa a segno dalla locomotiva a stelle e strisce nel frattempo salvatasi dal default per effetto della decisione del Congresso di innalzare il tetto del debito pubblico federale.

Bruxelles e Francoforte, invece, sembra che siano intenzionate a procedere contromano: costringendo l’economia della UE a contenere le proprie pretese di miglioramento nominale del prodotto interno lordo poco sopra la soglia dell’uno per cento, rinviando al prossimo anno le aspettative su salari, investimenti aziendali e acquisti familiari di beni durevoli.

Non basta: sembra che i tecnici della BCE vogliano raccomandare ai Governi di abbandonare quel poco che è rimasto dei sussidi destinati alle famiglie più vulnerabili per proteggerle dagli effetti dei rincari delle bollette verificatisi nei periodi precedenti. Secondo alcuni di loro, infatti, a seguito del calo delle quotazioni internazionali del gas, tali aiuti non solo scoraggerebbero l’adozione di comportamenti più parsimoniosi da parte di cittadini e imprenditori, ma comporterebbero una serie di inefficienze di sistema incentivando consumi energivori e poco efficienti.

Come se non dovessero essere presi in considerazione i dati di alcuni giorni fa relativi al crollo di oltre sette punti del dato tendenziale si base annua della nostra produzione industriale, la cui continuità operativa necessiterebbe al contrario di segnali incoraggianti da parte di un sano coordinamento fra politica fiscale, di competenza di Governi statali e Commissione UE, e monetaria, affidata ai Banchieri centrali titolari del conio della moneta unica.

Laddove questo coordinamento ha avuto luogo, come nella vicina piccola ma paradigmatica Albania, il risultato è stato quello di avere sconfitto l’inflazione portandola al di sotto della soglia del 5 per cento, un livello utile a non disincentivare le decisioni di spesa di famiglie e aziende, a favorire la circolazione di una ragionevole massa monetaria e a promuovere il rafforzamento della valuta locale Lek nei confronti dell’Euro e come moneta di denominazione di conti deposito e titoli rifugio.

In un Continente come quello europeo, immaginare di sconfiggere l’ascesa del livello generale dei prezzi attraverso un semplice, anzi semplicistico approccio monetarista, rappresenta una metodologia avulsa dal contesto storico e dalle stesse ragioni ispiratrici dell’Unione comunitaria delle origini, che vedeva nella stabilità delle monete, prima nazionali e poi continentale, non un fine ma un mezzo per difendere i risparmi diffusi e sostenere gli investimenti imprenditoriali grazie al minore costo dei fattori produttivi utilizzati. Viceversa, un approccio monetarista ortodosso e teorico porta chi ha necessità di finanziarsi sul mercato a dover indicizzare i rendimenti sulle obbligazioni offerte al pubblico dei sottoscrittori, deprezzando il valore del capitale, induce un maggior numero di investitori a ridurre la produzione – compresa la produzione di quei beni e servizi utili a realizzare gli obiettivi del Pnrr volti alla auspicabile autosufficienza delle materie prime – e non colpisce l’inflazione nelle sue vere radici di un fenomeno importato.

Proprio di recente, con riferimento allo sbandierato aumento degli occupati certificato dai rilevatori dell’ISTAT, chi davvero conosce il senso statistico di occupazione sa che essa si consegue dichiarando di lavorare almeno un’ora alla settimana. Ebbene, se il ragionamento si sposta sulla considerazione del numero delle ore effettivamente lavorate nell’ultimo periodo osservato dall’istituto nazionale di statistica, allora si scopre, amaramente, che il nostro mercato del lavoro è tornato indietro addirittura di tredici anni, al 2010. E non è consolatorio che pure all’epoca fosse vigente un Governo di centrodestra.

La sola nota positiva dei titoli obbligazionari indicizzati, parlando di quelli pubblici di durata pluriennale, ossia i BTP di nuova emissione, è che gli stessi vengono sottoscritti in misura maggiore dai risparmiatori italiani, i quali possono almeno tradurre in consumi le cedole degli interessi periodicamente incassati.

Per il resto, spostandosi ai beni durevoli, relativamente all’acquisto di prime case alcuni rinomati centri studi prevedono entro quest’anno un calo di compravendite prossimo al 15 per cento, oltre a maggiori oneri finanziari fino a 339 euro mensili sui prestiti contratti a tasso variabile.

Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI