Come lo sciacallo accompagna le carovane e il delfino le navi, il disamore pedina purtroppo i condottieri di popoli lungo gli itinerari consueti del loro immancabile successo. Il segnale d’allarme è il ricorso sempre più frequente da parte di coloro che fino a ieri marciavano con piede sicuro verso la vittoria alla parola tradimento. Brutto segno quando si comincia a denunciare a destra e a manca, il cuore zeppo di propositi vendicativi, gli apostati, i pavidi, i mestatori, le spie del nemico, i vigliacchi, i disertori interni e internazionali
Quando muta la sorte, le sconfitte sono come il fulmine: incominciano con l’accecare e spentosi il bagliore, basta poco tempo per rendersene conto.
Guantato nella sua solita toilette che sembra fatta apposta per sottolineare in modo un po’ offensivo per i suoi ospiti che lui è indaffarato nella guerra e gli altri, quelli che lo tengono in piedi con armi e palanche, sono pantofolai con la cravatta, pareva, quella in America, la solita tournée abbonata al trionfo, alla commozione, alle promesse. Zelensky si è accorto che il passare del tempo fa impallidire anche l’irresistibile fascino di vamp della guerra giusta. La nostra passione occidentale per la Giustizia internazionale, il diritto dei popoli è piena di pozzanghere e di vie che non portano a niente. E soprattutto è un amore che si spegne rapidamente.
In fondo è anche colpa del presidente ucraino. Da un anno e mezzo Zelensky non ha saputo come tutti i buoni attori potrebbero insegnargli cambiare copione, cercare una parte diversa. Niente affatto. Lui invoca, poi esige, e infine minaccia i suoi alleati usando come metafisica prova del nove della loro fedeltà, la vittoria totale come unica soluzione: datemi armi sempre più efficaci e potenti e raggiungerò la unica pace vera che consiste nella sconfitta totale di Putin.
Zelensky ci conosce bene, ha fiutato la nostra antica passione a tenerci lontano dai guai che ci coinvolgono, e mettono a rischio un benessere che mantiene il buon umore. Ma non ha calcolato che nel nostro ben sopportabile purgatorio resta una spina nel fianco, un dettaglio insopportabile: che la buona causa da sostenere ci costi troppo. Il sostegno senza se e senza ma deve far rima con una condizione: che la vittoria si delinei in modo chiaro e sia arieggiata da una data finale vicina. La guerra permanente, come la rivoluzione permanente, punteggiata da «non ancora», priva di orizzonti, richiede apostoli incrollabili al dubbio, addirittura svezzamenti profetici che non ci appartengono più.
Ora deve fare i conti con un Occidente che ha in corpo una gran fretta di tornare ai tempi normali, e di ritrovarsi nella propria vecchia pelle, liberandosi di terrori nucleari per tornare al tran tran di guai meno ultimativi come inflazione e migranti.
Il fatto stesso che la guerra stia diventando una tragica banalità periferica con cui in fondo si può convivere anche se durerà anni, ha reso lo scudo Zelensky meno necessario: l’idea smisurata di un Putin alla conquista del mondo è scomparsa di fronte ai suoi fallimenti ucraini, e si allenta la paura che raschiava alla porta dell’Europa con i missili e i carri armati.
Il mondo in questo inizio di millennio è orribilmente malato, cosparso di chiazze guerresche simile a un eczema, dal Sudan al Karabakh. Ma in fondo sopravviviamo benissimo in questa isola fortunata, c’è di che placare le ansie. E la mostruosa incredibile inaccettabile guerra ucraina sta scivolando a poco a poco in questa geografia di macchie fastidiose ma per cui non è necessario svenarsi più di tanto. Basta l’analgesico di un po’ di denaro che non faccia salire troppo la febbre.
Negli Stati Uniti il sostegno «fino a che necessario» all’Ucraina aggredita nelle pianure centrali d’Europa è diventato una assioma ostaggio della campagna elettorale per le presidenziali del prossimo anno. Certi suoi diligentissimi attivisti cominciano, anche tra i democratici, a fare i conti con gli umori degli elettori. Che sembrano sedotti più che dal far progredire la Storia dalle ragioni del portafoglio e dalla vecchia tendenza americana a occuparsi dei propri interessi. Che, si sa, non sono eterni, ma cangianti.
Anche altri incrollabili sostegni fino a ieri si convertono apertis verbis alla furberia, che è l’anticamera del tradimento. La furberia del commerciante che fa sospirare la merce per venderla a prezzo maggiore. E qui compare la Polonia. Quello che non aveva mai nessuno osato suggerire, neppure i pacifisti più ostinatamente francescani, ovvero non dare più armi a Kiev, lo hanno detto i polacchi. Proprio loro. Quelli che fino a ieri erano disposti a tutto perfino a scendere direttamente in battaglia contro l’aggressore russo e che ora annunciano: le armi modernissime servono a noi.
È molto probabile che nella abiura polacca ci siano ragioni di politica interna legate alle prossime elezioni e il problema della concorrenza del grano ucraino che imbestia gli agricoltori ed elettori di quel Paese. Zelensky deve sperare che tutto evapori grazie a una unzione di miliardi e di ristori da parte della solita Unione europea, per ora con il portafoglio in mano. Ben più grave sarebbe se i polacchi, ormai diventata la vera avanguardia americana nel vecchio continente, servissero come test della amministrazione americana per vedere le reazioni a un ben più ampio disimpegno.
Zelensky lotta contro un avversario implacabile, il tempo. Non può come il suo avversario puntare sull’usura, usura degli uomini usati come carburante della guerra, usura delle economie occidentali, usura della pazienza. Il suo capitale da spendere è più piccolo. Può solo alzare la posta, spingere i russi a una guerra ancor più definitiva e totale. Legandoci a lui in modo davvero indissolubile.
DOMENICO QUIRICO


