MANOVRA 2024, TUTTI I TASSELLI CHE NON TORNANO

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Non esiste soltanto il dilemma del superbonus edilizio, più o meno legittimamente accusato di avere condotto i conti pubblici del Paese allo status di osservati speciali da Bruxelles; uno studio della società di consulenza internazionale Kpmg ha messo l’accento su un fronte da tutti dimenticato epperò riportato alla ribalta dalla dura realtà delle scadenze normative e finanziarie

Stiamo parlando delle garanzie statali covid che furono introdotte nel 2020, in piena prima ondata pandemica, dal Governo Conte 2 con l’obiettivo di assicurare congrue doti di liquidità ai settori imprenditoriali incoraggiando la leva bancaria in alternativa alle non fattibili erogazioni a fondo perduto.

Il meccanismo è teoricamente piuttosto semplice: attraverso il rifinanziamento del fondo di garanzia presso l’ex ministero dello sviluppo economico, dedicato soprattutto alle PMI, ovvero attraverso un fondo presso la società assicurativa pubblica SACE per i gruppi maggiori, gli istituti di credito, nell’ambito delle normative in allora vigenti (comprese eventuali restrizioni legate a vincoli come quelli di Basilea e della UE), procedevano alla concessione di prestiti finalizzati a garantire la continuità dell’ordinaria gestione aziendale, la ricostituzione del capitale circolante, la ripresa dei progetti di investimento.

Il punto, molto in concreto parlando, è che la larga maggioranza dei finanziamenti erogati è stata utilizzata per mantenere in vita le aziende beneficiarie, dal punto di vista del rispetto delle scadenze su stipendi, obblighi fiscali e contributivi, bollette e altre voci di spesa fissa.

Adesso, al pari di altri interventi contratti a debito e risalenti a quel terribile periodo, i conti si presentano in misura cumulativa e, come si ricava dallo studio condotto da Kpmg, parlano di prestiti garantiti in essere per un importo residuo, cioè da ammortizzare, pari a circa 220 miliardi di euro, in discesa al confronto con i 295 miliardi accertati allo scorso mese di giugno.

L’aspetto positivo è che il livello di insoluti rimane a un tasso di fisiologicità dei default, nella media nazionale più generale delle sofferenze, ma a preoccupare è l’andamento del costo del denaro lievitato a punti non pensabili quando venne varato dal Governo giallorosso il “decreto Liquidità” nella primavera del 2020.

Uno scenario che potrebbe diventare di sovra esposizione in ragione della circostanza che la metà circa dello stock dei finanziamenti garantiti ancora da ammortizzare è iscritta nei bilanci di soli cinque gruppi bancari, i quali nell’ipotesi più funesta di insolvenza dell’impresa affidataria avrebbero al più modo di rivalersi sul fondo pubblico di garanzia, e quest’ultimo in ultima analisi (virtualmente parlando) sul soggetto garantito.

Tanti motivi per cui nella manovra, in fase di complicata stesura da parte del Governo Meloni e del dicastero del MEF di Giancarlo Giorgetti, saranno definiti dei meccanismi e degli strumenti attraverso i quali rendere il più possibile morbido e indolore, per i conti pubblici, l’impatto di quello che rimane del decreto Liquidità del 2020, un provvedimento che – dopo l’avvento del Governo Draghi e lungo tutta la campagna elettorale delle consultazioni politiche anticipate del settembre 2022 – sembrava essere finito nel più completo dimenticatoio delle discussioni politiche viceversa fossilizzate sui presunti effetti laceranti del superbonus al 110 per cento.

A ciò si aggiunga l’ulteriore constatazione che all’appello della prossima legge di stabilità e di bilancio continuano a mancare almeno 20 miliardi di euro, una parte dei quali dovrebbe essere reperita per il tramite della benevola concessione di un ulteriore sforamento sul rapporto fra deficit e prodotto interno lordo, al di sopra del tetto del 4 per cento, per l’esercizio 2024.

Sembra invece essere stata definitivamente accantonata la versione originaria della tassazione eccezionale sui presunti extra profitti bancari, la cui iniziale impostazione avrebbe comportato effetti collaterali di impatto negativo sul potere d’acquisto dei risparmi familiari e aziendali depositati presso gli istituti di credito, così come un rischio connesso al disimpegno di molti di questi ultimi nei confronti della propensione a detenere titoli pluriennali del debito pubblico sottoscritti o acquistati in una fase di bassi e bassissimi rendimenti.

Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI