Il ministro delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, ha sospeso la procedura di cessazione dello stabilimento di Crevalcore, avviata dal fondo americano controllante Kkr, ma il rischio di una definitiva chiusura dei cancelli della fabbrica, dove sono occupate oltre 200 persone al netto dell’indotto, permane per intero
Forse, le maestranze impiegate nel sito del territorio bolognese riusciranno a ottenere robusti incentivi economici all’esodo oppure un accompagnamento verso la pensione, ma la realtà rimarrà quella di un ulteriore impoverimento del nostro panorama manifatturiero.
Le responsabilità sono molte, e a ogni livello politico e manageriale, e poco importa addossare ogni presunta colpa grave a chi occupa attualmente gli scranni più alti di palazzo Chigi.
Se proprio volessimo andare alla radice del casus belli attuale, ossia all’autunno del 2018 quando il compianto Sergio Marchionne, amministratore delegato dell’allora FCA, decise di cedere per circa 6 miliardi di euro la Magneti Marelli al potentissimo fondo americano Kkr, che una volta diventato il proprietario del marchio italiano lo fuse con una società giapponese che aveva in portafoglio. Negli organi direttivi e decisionali della nuova Marelli sparì del tutto la rappresentanza italiana.
I successivi anni dal 2019 al 2021 avrebbero segnato una serie di cambiamenti traumatici in misura tale da scompaginare i piani originari degli artefici dell’operazione cessionaria: prima, la tragica e improvvisa scomparsa di Marchionne, poi lo scoppio della pandemia da coronavirus che mise sotto shock le filiere automobilistiche mondiali spingendo la classe politica europea, in maniera troppo improvvida e incauta, ad accelerare sull’elettrico.
Il risultato fu quello di un progressivo effetto di spiazzamento del marchio Magneti Marelli, che si sarebbe aggravato a seguito di un altro determinante evento impensabile ai tempi della gestione Marchionne: la fusione di FCA con Peugeot e la costituzione di Stellantis con conseguente spostamento del baricentro decisionale in Francia corroborato da una partecipazione azionaria pubblica in mano al governo d’oltralpe, cioè a Macron, il che privilegia la scelta di sub-fornitori dell’indotto francese.
Il fondo Kkr, che sta trattando con il governo ex sovranista di Giorgia Meloni l’acquisizione della rete infrastrutturale di Telecom, in condominio con Cassa depositi e prestiti, sta adesso concordando con il settore bancario un maxi piano di abbattimento della massa debitoria nell’ambito di un programma di ristrutturazione di livello europeo che prevede centinaia di esuberi soprattutto fra Italia e Germania su cui si dovrebbero concentrare addirittura 1100 eccedenze occupazionali nel complesso.
Stiamo pertanto parlando di una vicenda che coinvolge sia il Governo gialloverde di Conte, con Luigi di Maio all’epoca ministro dello sviluppo economico, sia l’esecutivo in carica, sia le autorità europee: nessuna di queste istituzioni sembra avere esercitato, né per tempo né tardivamente, le prerogative a ciascuna di esse assegnate per attutire l’impatto delle decisioni aziendali ovvero per concordare una diversa riorganizzazione funzionale e professionale dei poli produttivi partendo proprio da quei criteri di efficienza che, conti economici alla mano, sarebbero stati salvaguardati anche senza i sacrifici occupazionali attualmente previsti.
Per questo si dovrebbe ragionare non solo sul rafforzamento delle golden share e power entro i singoli perimetri nazionali, ciò che porta a motivi di attrito per esempio tra Francia e Italia, ma sulla previsione di un tale strumento che sia esercitabile dalla commissione UE.
Un tema che ci auguriamo possa entrare a fare parte della prossima campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo.
Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI




