AUTO, PIANO URSO ANCORA IN FOLLE. ANZI, IN RETROMARCIA

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Parti sociali sempre più pessimiste sulla eventualità di riportare la produzione automobilistica italiana a un milione annuo di vetture, come promesso fin dalla scorsa estate dal titolare del ministero dell’industria e del made in Italy

Quello che avrebbe dovuto rappresentare uno dei fiori all’occhiello dell’attuale Governo Meloni per il ritorno a un sano patriottismo industriale, avulso da antieconomiche tentazioni nazional-sovraniste, è in folle più che mai, per utilizzare una metafora settoriale. Anzi, in retromarcia e senza neppure lo specchietto retrovisore.

Il bilancio consuntivo trimestrale del gruppo multinazionale Stellantis, ex Fiat ex FCA, pur avendo evidenziato una crescita del dieci per cento nei volumi produttivi, sebbene in rallentamento sul 2022, ha sottolineato la stagnazione delle attività del polo storico di Mirafiori, e previsto un calo della produzione che colpirà il prossimo trimestre, sancendo una conclusione di 2023 dominata dalle incertezze internazionali e domestiche.

Soprattutto, simili numeri sembrano essere non compatibili con gli obiettivi politici del Governo Meloni Urso di fare risalire quantitativamente l’industria delle quattro ruote ai fasti di oltre 20 anni fa, e ciò sebbene i vertici della multinazionale, oramai basata Oltralpe e guidata dalla coppia Tavares Elkann (con la variabile di Macron azionista pubblico), abbiano designato sotto la Mole antonelliana, in ricordo di tempi antichi non più proponibili, le manifatture relative a 500 Elettrica e Maserati green, oltre al polo dell’economia circolare per la ricerca sulle batterie.

Ad avviso della unanimità delle organizzazioni sindacali del lavoro dipendente, secondo le quali il raggiungimento di numeri più idonei degli attuali – incagliati su meno di 500.000 vetture all’anno – è la sola precondizione per trarre in salvo oltre 75.000 occupati, non solo mancherebbe all’appello la più volte annunciata e promessa intesa tra palazzo Chigi e Stellantis, ossia tra Urso e Tavares, per stabilizzare la produzione annuale mai al di sotto della soglia fatidica del milione; ma in parallelo non si sarebbe fatto nulla per mettere in moto le risorse a valere sul capitolo della reindustrializzazione e della riassegnazione, pure ventilata in varie occasioni, di quote del Pnrr per il finanziamento dell’industria a transizione 4.0, garantendo un maggiore automatismo nei sostegni alle imprese e al lavoro.

Allo stato odierno, il Governo, per il tramite del viceministro alle Finanze Maurizio Leo, collega di partito di Adolfo Urso in Fratelli d’Italia e custode della riforma del sistema tributario, ha allo studio un anticipo, fin dalla prossima complicatissima manovra di bilancio per il 2024, del riassetto dell’imposta Ires ex Irpeg, ossia il prelievo sugli utili delle società di capitale, con l’obiettivo di introdurre con effetto immediato l’aliquota del 15 per cento a beneficio dei progetti di investimento industriale, e di annesse assunzioni a tempo indeterminato, la cui filiera sia totalmente localizzata in Italia, e in tale livello di tassazione sarebbe compreso lo sconto fiscale per chi riporti (cosiddetto reshoring) i segmenti di produzione in precedenza delocalizzati soprattutto a est.

Non è ancora la svolta prospettata ma, semmai la si riuscisse a realizzare, sarebbe quanto meno l’avvio di una diversa andatura oggi, come dicevamo all’inizio, in folle.

Il Governo Meloni dovrà tuttavia prestare attenzione a un ulteriore fattore: quello di un eccesso di zelo nelle privatizzazioni che, ove non gestite in maniera tale da assicurare una qualche minima tutela degli interessi nazionali, potrebbero condurre agli stessi errori politici commessi sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, allorquando realtà aziendali anche sane in mano pubblica vennero cedute, in proprietà o in integrale concessione, senza alcuna clausola di salvaguardia in termini di vigilanza o di azionariato privilegiato.

Dir politico Alessandro ZORGNIOTTI