Dopo le ultime quattro settimane di pressing casalingo, a seguito di figuracce, deludenti confronti TV e problemi di salute, alla fine il presidente dem uscente della Casa bianca ha dovuto dichiarare il proprio ritiro, spianando così la strada alla propria vice Kamala, fine giurista che non ha mai avuto il problema di dover cercare voti
Ciò che pareva già acquisito oramai da circa un mese, nonostante le fiere smentite del diretto interessato, si è tramutato in realtà ufficiale: Joe Biden non si candiderà più alla successione di se stesso al voto presidenziale del prossimo novembre per un (politicamente) acciaccato partito democratico. Al suo posto correrà, per sfidare la fischiettante locomotiva ad alta velocità dei Repubblicani di “Big” Donald Trump, la vice Kamala Harris, che il leader del Partito dell’elefante ha definito la propria “migliore nemica”, con riferimento alla declamata capacità di vittoria della Destra statunitense nei confronti dell’attuale numero due del Governo federale.
D’altronde, come si tende a sostenere da più parti, se i pronostici fossero stati diversi, molto probabilmente a concorrere allo scranno più alto della Casa bianca sarebbe stata Michelle Obama, ex First lady per due mandati del Nobel per la pace Barak.
Sono molteplici i fronti di critica che vengono mossi alla gestione Biden delle grandi crisi internazionali che si sono susseguite nel corso degli ultimi quattro anni: dalla disfatta della umiliante ritirata da Kabul, che in Afghanistan ha favorito il ritorno al potere del peggiore e più oscurantista regime talebano, alla radicalizzazione del conflitto israeliano palestinese, dallo scoppio della guerra russo ucraina al crescente ruolo economico globale del dragone cinese, per finire con la mina vagante della Corea del Nord, ultimo belligerante baluardo del militarismo stalinista ortodosso.
Conflitti che il candidato Trump, assurto a vero eroe nazionale americano dopo lo scampato attentato che gli è costato un orecchio in Pennsylvania, ha promesso, con tanto di Road Map e di cronoprogramma, di poter risolvere subito dopo il proprio insediamento sulla poltrona di Presidente degli Stati Uniti d’America.
Senza dimenticare il ruolo americano che sarà fondamentale per riportare sui binari del dialogo diplomatico positivo la dialettica fra Serbia e Kosovo, ripartendo dagli accordi della Casa bianca dell’estate del 2020, uno degli atti conclusivi del primo mandato di Big Donald.
Dir politico Alessandro Zorgniotti



