Fed e Bce, sebbene da presupposti diversi, sono pronte a intraprendere, con ponderazione, un cammino di riduzione del costo del denaro sulle due sponde del nord dell’Atlantico, in maniera graduale e nel corso delle sedute rimanenti nell’ultimo quadrimestre dell’anno
Il ritorno dell’inflazione a livelli sottostanti al 3 per cento, in uno con l’andamento sottotono del mercato del lavoro, nell’economia a stelle e strisce; la per nulla brillante performance dei salari reali, calati ancora nel potere d’acquisto, nel vecchio continente e nell’Europa dei 27.
Questa duplice e pressoché concomitante circostanza dovrebbe indurre i decisori della politica monetaria di dollaro statunitense ed Euro a rientrare, almeno in parte, dalle protratte e consolidate scelte di austerità valutaria compiute all’indomani della conclusione dell’emergenza pandemica e dello scoppio del conflitto russo ucraino all’origine del letterale scoppio dei prezzi base dell’energia e delle materie prime agricole.
Le azioni di politica economica continentale assunte nei mesi successivi, sia negli States che nella UE, in maniera più o meno volontariamente hanno permesso, non senza traumi iniziali, di attenuare i profili di dipendenza esterna e di tutelare il potere d’acquisto interno.
Condizioni che adesso autorizzano più miti consigli nell’ambito delle scelte incidenti sul costo del denaro e quindi del servizio del debito gravante su imprese e famiglie.
Dal Wyoming, Kansas City, in occasione del simposio e ricevimento indetto dalla sede regionale della Federal reserve a Jackson Hole, il Presidente e governatore centrale di Washington, onorevole Jerome Powell, ha dichiarato maturi i tempi per procedere, a partire da settembre, a una riduzione graduata del tasso di riferimento applicato ai fondi federali, con l’obiettivo di liberare maggiore liquidità per famiglie e piccole e medie imprese sul fronte della non sofferenza dei mutui in atto e della possibilità di attivazione di nuovi o maggiori prestiti al consumo, all’ipoteca e agli investimenti circolanti e strumentali.
Analoga scelta si prospetta altresì da parte della Banca centrale europea presieduta da Christine Lagarde, che oltre a vedere più vicino il rientro del carovita ufficiale verso la soglia del due per cento, non può più agitare lo spettro dell’inflazione indotta da fattori di ordine salariale.
Sebbene gli eventi di forza maggiore abbiano portato la BCE verso una Costituzione cosiddetta materiale oltre le rigide competenze del trattato di Maastricht – di Istituto centrale votato unicamente al presidio di bassi tassi di inflazione core -, rimane un dato di fatto che sul piano statutario le finalità di Fed e banca centrale di Francoforte non sono per nulla allineate: compito costituzionale della Federal reserve è infatti quello di garantire, in uno con la stabilizzazione dell’indice generale dei prezzi, obiettivi volti al conseguimento di una piena occupazione sostenuta da dignitosi salari di produttività.
Attualmente i tassi di riferimento sono al 5,50 per cento da parte della Fed – non va dimenticato che negli USA il debito pubblico è di carattere federale e ne va incentivata la sottoscrizione a livello globale – mentre al 4,25 si attesta quello base ribadito dalla BCE.
Dir politico Alessandro Zorgniotti



