Il libro propone le memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia, bambina che diventerà da grande autrice di romanzi e opere teatrali, poetessa e saggista, tradotta in 25 lingue, che ha vinto nel 1990 il Premio Campiello e nel 1999 il premio Strega. Una curiosità che è anche un aspetto rivelatore della sua personalità: ha divorziato dal marito perché – dice – voleva limitarla nel suo lavoro-passione.
Abbiamo segnalato questo “mini-gossip” pur essendo da sempre contrari al pettegolezzo, semplicemente per far meglio capire come il suo carattere sia stato forgiato dai tre anni di prigionia in un campo giapponese (dall’ottobre 1943 al 30 agosto 1945).
Dacia Maraini, è lei la bimba, ha 7 anni, è figlia della nobile Topazia Alliata e di Fosco Maraini. Lui è un antropologo, orientalista, alpinista, fotografo e scrittore molto seguito, autore, tra l’altro, di “Case amori universi”, “Karakorum”, “L’isola delle pescatrici”, “Ore giapponesi” … e dello spiritoso “Gnosi delle fanfole”, un’invenzione letteraria, poesia metasemantica (parole prive di significato ma dal suono familiare, parole “non sense” ma belle nella loro disposizione in versi, musicalmente molto gradevoli), che si trova all’università di Kyoto in veste di insegnante.
Dacia vive serena con i genitori e le sorelline Toni eYuki, in una famiglia ben integrata in quel bel Paese. Ma c’è la guerra, ed un brutto giorno qualcuno si presenta in casa e chiede di giurare fedeltà al governo nazifascista della Repubblica di Salò, con cui il Giappone è alleato.
Da questo giorno per tutta la famiglia, soprattutto per le bimbe, iniziano gli anni più brutti della loro esistenza poiché Topazia e Fosco si rifiutano di farlo. Dopo alcune settimane da segregati in casa, i genitori e le figlie sono imprigionati in un campo di concentramento destinato ai “traditori della Patria”.
Coraggio e fedeltà ai principi ed alle idee di giustizia e libertà hanno il loro prezzo!
Anni, mesi e giorni terribili, che sono facilmente immaginabili, trascorsi tra fame, sete, sofferenze, angherie, topi, pulci e privazioni in un luogo ostile in cui i carcerieri (chiamati eufemisticamente “angiolini”) aumentavano le loro sofferenze privandoli, a proprio vantaggio, anche delle già minime dosi giornaliere di cibo.
A questo punto il carattere, l’orgoglio, la forza di volontà e la determinazione dei Maraini “spaventarono” i carcerieri, che mitigarono le angherie, gli abusi e le prepotenze dopo aver visto il gesto inatteso di Fosco. Infatti, dopo l’ennesimo sopruso del capo pattuglia giapponese, Azumi, e le sue frasi offensive, tra cui “…voi italiani siete vigliacchi, traditori e bugiardi…”, in risposta alla richiesta di alimentare bene almeno le bambine – tra i 18 prigionieri sfamati con poco riso (ciotole, razioni, “bun”, sempre scarsi) – Fosco “pericolosamente” alzò la voce rispondendo a muso duro e con veemenza a quell’uomo e, prima che l’altro estraesse la pistola e sparasse per quella inammissibile ribellione, afferrò da terra un’accetta (stavano tagliando la legna), si amputò un dito e lo gettò addosso ai suoi carcerieri, bagnando col suo sangue le loro divise.
Questo gesto, molto noto nella cultura giapponese (il “giri” obbligo morale e d’onore per un samurai, prima di giungere all’estremo atto del suicidio), scosse profondamente quegli aguzzini che successivamente portarono una capretta nel campo. Quel poco latte fu un vero salva-vita.
Oltre al ricordo di questo teatrale ed efficace gesto, il libro è ricco di aneddoti e ricordi – qualcuno anche positivo, come quello della la piccola Keiko, l’amichetta giapponese che di nascosto le portava ogni tanto una nespola o una carota… – ben raccolti, selezionati e raccontati dalla Maraini.
Ad esempio l’episodio della vista di una pecora sgozzata in un macello che la spinse a diventare vegetariana; o quell’altro, dopo la liberazione, che la vedeva istintivamente, per qualche tempo, nascondere lo zucchero sotto il cuscino in previsione di altri momenti di fame.
Tra i tanti, belli e significativi, riportiamo un ultimo pensiero di Dacia: “ …il Giappone mi ha insegnato a dialogare con i morti, a non temerli… erano per me figure benigne, degli amici…che guardano, giudicano e danno consigli… come succede nel teatro “Noh” che racconta sempre di dialoghi complessi e profondi fra vivi e morti.”
(il teatro “Noh” è una forma di di teatro risalente al XIV secolo e si esprime con maschere, musica, gestualità, danza e rappresentazione scenica, anche con brevi pezzi comici (kyogen) e brevi giochi di parole ndr)
Concludiamo con un nostro “aiku-fànfola” (breve poesiola giapponese esprimente uno stato d’animo momentaneo) in omaggio a Fosco Maraini:
“Gàrrula quèrulo messer Fargiùlo
nel tintinnar dell’ostèmpolo paristènte.
Sàdicola il Marìtolo sul mùlo
mentre brìscola la frùstola gaudènte.”
Franco Cortese Notizie in un click




