Trasformare una guerra per la sopravvivenza d’Israele nell’innesco di una guerra mondiale, come ha fatto ieri dal podio delle Nazioni Unite, è il servizio peggiore che Benjamin Netanyahu poteva rendere al suo popolo. Suona come una chiamata alle armi di tutto l’Occidente – ammesso che una tale entità ancora esista, che sia pronta a lasciarsi trascinare, e che Israele ne faccia per davvero parte – in un conflitto diretto con l’Iran.
È dal pomeriggio del 7 ottobre dell’anno scorso, a poche ore dal massacro perpetrato da Hamas e dall’umiliazione subita dagli apparati di sicurezza israeliani, che Netanyahu se lo sente ripetere in casa dai suoi ‘falchi’: non perdiamo tempo sfiancandoci nel ginepraio di Gaza, usiamo la nostra superiorità militare per sferrare un colpo definitivo ai mandanti di Hamas, che stanno a Teheran. Ancora nei giorni scorsi, le pressioni si erano ripetute: che senso ha attaccare gli Hezbollah che ci sparano addosso missili e droni dal Libano se prima non distruggiamo la potenza che li rifornisce, cioè l’Iran? Netanyahu è un pavido, tutt’altro che un guerriero.
Spregiudicato e cinico, per anni si è accontentato di sottomettere i civili palestinesi e misurarsi con formazioni terroristiche, Hamas e Hezbollah, che rispetto a Tsahal combattono comunque in posizione d’inferiorità. Ma ora, dopo aver condotto in un vicolo cieco Israele, è diventato anche un leader disperato e affetto da mitomania, consapevole che neanche l’offensiva in Libano e la morsa di ferro imposta alla Cisgiordania, dopo la carneficina di Gaza, basteranno a restituire sicurezza ai suoi cittadini.
Punta allora al grande azzardo: mettere definitivamente fuori gioco l’Onu, giungendo a insolentirlo di persona – terrapiattisti, antisemiti! – e convincere gli Usa, insieme alle destre nazionaliste europee, di non avere altra scelta che diventare compartecipi di un’avventura temeraria: spazzare via l’Iran degli ayatollah per pacificare il corridoio che va dall’Oceano Indiano al Mediterraneo.
Così si romperebbe la solitudine d’Israele di cui scrive il filosofo Bernard-Henry Lévy, vaneggiando sulla necessità di riunire le potenze del cosiddetto “mondo libero” nel combattimento contro l’asse del male formato da Iran, Russia, Cina e Corea del Nord. Solo dei fanatici possono credere che l’allargamento a macchia d’olio della guerra possa rappresentare il presupposto della salvezza d’Israele. Se Hamas si è confermato una serpe in seno ai palestinesi, che mai avevano sofferto quanto gli è toccato dopo il 7 ottobre; se Hezbollah è la disgrazia di un paese-mosaico come il Libano; altrettanto miope è il consenso fornito dagli israeliani al “lavoro sporco” del loro esercito e della loro intelligence. Si capisce che siano esasperati dopo un anno infernale, fallace è la speranza di infliggere un colpo definitivo al nemico: questo “lavoro sporco” non finisce mai.
Aggrapparsi alla sola capacità di fare paura, mostrarsi spietati, non ha mai salvato una nazione. Resta da chiedersi a chi piacerà il messaggio bellicoso lanciato da Netanyahu a New York. Dietro al quale si riconosce una visione apocalittica non solo del futuro del popolo ebraico, ma del mondo intero. L’11 settembre scorso, Donald Trump, di fronte a una platea di ebrei americani, aveva lanciato una cupa profezia: “Se al posto mio venisse eletta presidente Kamala Harris, fra due anni Israele non esisterà più”.



