Vizi capitali

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Fu dai tempi della mia esperienza in RC (Rifondazione Comunista) che questa cosa mi divenne ben chiara: la politica non è un servizio alla collettività, ma la prosecuzione della lotta di classe col pretesto di mirare al bene comune. Mi divenne chiara quando volli analizzare il motivo dell’asprezza di certe lotte in assenza (e lì erano veramente scarsi) di guadagni personali. Capii che quando non si spartisce denari lo stimolo maggiore di quella che chiamiamo “passione politica” è di natura narcisistica. In quell’esperienza gli scontri dialettici, ideologici, strategici, non erano altro che la volontà di primeggiare, di vincere. Altrimenti ci si scontrava, si creavano nuove posizioni, si componevano conflitti insanabili, ci si scindeva. La destra non aveva questi problemi. “La vittoria unisce”, diceva Berlusconi, e alla luce delle spartizioni e dei guadagni immediatamente si ricomponevano i dissidi, sparivano le differenze. Purtroppo, nei partiti degli onesti la magica formula della pace tra i ladri era assente.

Una cosa che nel Movimento accade spesso. Gli eletti che non sono di primo piano, le mezze calzette che non possono ambire a ruoli di prestigio e alla considerazione generale, sono a rischio tradimento. Ma è una iattura che perseguita anche i secondi, i capi, i sorpassati e gli oscurati dai nuovi beniamini degli elettori. Il primo fu Marcello De Vito, condannato a fare il secondo dietro la Raggi, dietro una donna che allo sprint finale delle candidature l’aveva fregato nel momento migliore del M5S romano.

Stanco della parte di sostegno, di scialba istituzione, cercò e trovò un motivo più valido per fare politica facendosi corrompere dalle sirene del profitto. Il più famoso fu Di Maio (mio omonimo), obbligato dai fatti a non poter essere premier nonostante il 33%. Si accorse suo malgrado che la controfigura scelta proprio da lui per motivi strategici si era preso tutta la scena e aveva conquistato il favore del suo popolo. Considerando che Gigino non era un corrotto nel senso classico, la sua scissione fu dettata solo dall’invidia.

E non è sempre lo stesso vizio a tormentare le notti di Giuseppe Grillo da Genova, cacciato dalla sua creatura per non aver saputo interpretare il ruolo del padre nobile, per non aver dimostrato la gratuità dei sentimenti familiari? Un vizio che sta scoprendo i limiti della sua creazione, un guazzabuglio che trasformò il suo pubblico in elettori, che ora, alle sue pretese di essere ridotti a spettatori di un guitto, stanno abbandonando la sala.