La nostra povera Carta

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La madre delle riforme è sempre incinta, come la madre dei cretini evocata da Flaiano. Ma in attesa di generare il premierato, l’impeto riformatore si rovescia su ogni norma della Costituzione, la rivolta come un calzino usato, vi aggiunge più grani di un rosario.

Sono 117 i disegni di legge costituzionale via via presentati in Parlamento durante questo primo scorcio della legislatura. Con le più nobili intenzioni, come no. E senza risparmiare sull’inchiostro. È il caso della proposta depositata da Girelli (Pd), per affibbiare una denominazione tutta nuova al palazzo di Montecitorio: “Camera delle deputate e dei deputati”. Giusto così: nomi separati, bagni separati.

D’altronde, a compulsare questa lenzuolata di proposte, ogni categoria vi ottiene un posto al sole. Gli avvocati, su cui pendono 6 richieste avanzate da destra e da sinistra. E poi i consumatori, i disabili, gli anziani, benché siano già tutelati da varie norme costituzionali.

O le vittime dei reati (anche qui: 7 proposte bipartisan), allo scopo di rafforzarne la posizione nei processi. Ma perché, non è già abbastanza garantita? E se c’è proprio bisogno di nuove tutele, non basterà correggere il codice di procedura penale?

È la maledizione del nostro tempo: siamo diventati prolissi, verbosi, ridondanti. Infiliamo filastrocche di parole perché non abbiamo più nulla da dire. Ma è un esercizio vano, quando non anche nocivo, se applicato alle parole della legge.

“Quel che è più strano” scriveva Ludovico Muratori durante la metà del Settecento “quando più di parole talvolta si adopera in distendere una legge, a fine appunto di bene spiegare l’intenzione di chi la forma, tanto più scura e capace di diversi sensi essa può divenire”.

Vecchia lezione, ormai disimparata. Da molti anni un virus nomenclatore infetta il nostro ordinamento. Dove s’incontrano leggi che regolano la “costituzione di pegno sui prosciutti”, e dove il regolamento di polizia mortuaria disciplina perfino “le modalità per la sosta dei cadaveri in transito”.

Questa incontinenza semantica e verbale è ancora più perniciosa rispetto alle parole della Costituzione. Non a caso, nel 1947, l’Assemblea costituente impegnò almeno un quarto delle proprie discussioni per espungere dal testo il sovrappiù, il superfluo, le disposizioni che non meritassero spazio nella legge fondamentale dello Stato. Oggi invece di spazio se ne trova, perfino nella Parte prima, quella sui principi e sui diritti, che dovrebbe essere intangibile come le tavole di Mosè.

Nel 2022 il Parlamento ha approvato a voti unanimi la riscrittura dell’articolo 9, per aggiungervi la tutela dell’ambiente, senza accorgersi che la Consulta lo protegge già dagli anni Ottanta, né che questa parolina magica fosse stata introdotta nella Carta fin dal 2001.

Nel 2023 le Camere, ancora una volta senza nessun voto contrario, hanno inciso l’articolo 33, scrivendo che lo sport fa bene alla salute. E ci mancherebbe, come non essere d’accordo? Ma allora scriviamoci pure che alla mamma si deve voler bene, o che la pastasciutta è il nostro piatto nazionale.

Su questa falsariga, Messina (FdI) propone un altro emendamento all’articolo 9 per tutelare il mare (e perché non anche i fiumi, i ruscelli, i laghi?). Morassut (Pd) punta sull’articolo 44, per estenderlo al recupero delle periferie. Un disegno di legge popolare reclama lo stop costituzionale all’indottrinamento gender nelle scuole. La centrista Biancofiore pretende (nell’articolo 7) il riconoscimento delle radici giudaico-cristiane.

Dara (Lega) s’accorge che nell’articolo 22 manca il diritto all’identità digitale. Boldrini (Pd) chiede di modificare l’articolo 37 per indicare la funzione familiare dei lavoratori, oltre che delle lavoratrici. Foti (FdI) vorrebbe introdurre nell’articolo 32 il principio della “sovranità alimentare”. E via via, viva la fantasia.

Michele Ainis