“Il più grande movimento politico di tutti i tempi. Non c’è mai stato niente del genere in questo paese e forse anche altrove”. Trump si autoproclama 47° presidente, quando la conta dei voti non è ancora finita, le principali testate non azzardano proiezioni definitive, ma la tendenza sembra quella ormai da ore con la mappa degli Usa che si tinge di rosso uno stato dopo l’altro e le speranze di Kamala Harris si riducono all’attesa di un improbabile miracolo. Riecco Trump, subito omaggiato da Viktor Orban e Giorgia Meloni, ma anche Macron e via via anche il resto d’Europa e del mondo.
“Dio mi ha salvato per un motivo. Salvare il nostro paese”, si incensa Trump, promettendo pace nel mondo: “Siamo il partito del buonsenso, non vogliamo guerre”. Un tentato golpe alle spalle, frodi fiscali, complottismi, incitazione alla violenza. Lui, un bugiardo seriale, razzista, predatore sessuale dall’incontinenza verbale, l’uomo che ai comizi invitava a puntare il fucile sulla stampa e prometteva di gettare in cella gli avversari, l’ex presidente con pendenze legali plurime, su cui aleggia anche il dubbio che l’età ne abbia più che appannato la ragione. Eppure l’America lo preferisce ancora a una donna, non solo l’America bianca e maschia, ma anche i latinos hanno votato per lui. E i giovani e persino una percentuale ragguardevole di donne (“non devo mica uscirci a cena insieme”).
Come nel 2016 Trump si è aggiudicato anche il voto di quella fascia di elettorato che non amava nessuno dei due candidati, i double haters, per un margine larghissimo. Tra i due, tappandosi il naso, la scelta ha premiato una visione del mondo in bianco e nero, soluzioni semplici, la complessità ridotta a slogan: rifare grande l’America, deportare gli immigrati, tagliare le tasse, e un paio d’ore per chiudere i conflitti. Che Putin prenda ciò che crede, Netanyahu spazzi via i palestinesi. Che ci vuole? E soprattutto che ci interessa? L’America deve pensare a se stessa.
Ci si aspettava un’elezione testa a testa, con le schede da contare e ricontare per giorni. E invece negli studi televisivi Usa che seguivano lo spoglio commentatori e analisti non hanno potuto nascondere un certo stupore di fronte al distacco piuttosto netto tra la candidata democratica e The Donald, mentre i repubblicani facevano man bassa aggiudicandosi anche il Senato.
Kamala Harris certo è partita in ritardo entrando in corsa, poco più di cento giorni di campagna elettorale contro una macchina che rincorreva la rivincita da quattro anni: l’appello alle donne e alla difesa dell’aborto, suo cavallo di battaglia, non è stato sufficiente (sei stati sui dieci che hanno svolto un referendum in queste ore hanno comunque salvaguardato o ampliato i diritti riproduttivi) . Certo, scontava anche l’essere assimilata a Joe Biden e a quella che nella percezione diffusa non solo nel campo repubblicano è stata un’amministrazione fallimentare – solo il 38,5% degli americani approva il suo operato a dispetto di un’economia forte, tirata su dalle paludi della pandemia con i 1900 miliardi di dollari dell’American Rescue Plan, i 1200 destinati a rimettere in sesto strade, ponti e ferrovie, le misure per frenare l’inflazione, stimolare la produzione di energia pulita (800 miliardi), riportare la produzione di microchips negli Usa e via andare: la disoccupazione è irrisoria, i salari sono aumentati almeno quanto i prezzi. Eppure.
Ci sarà da ragionare, su quanto la percezione delle elite democratiche delle fasce costiere e delle grandi città sia lontana dal ventre molle di un paese che appare sempre più spaventato dal futuro da aggrapparsi a certezze a portata di mano come un fucile o una pistola e a rispecchiarsi nelle proprie verità amplificate dai social: ognuno nella sua bolla, magari pilotata da algoritmi tutt’altro che neutrali (un grazie sonoro è risuonato dal palco della vittoria per Elon Musk, che sul suo X ha pilotato teorie complottistiche e agitato gli animi, versato decine di milioni di dollari alla campagna elettorale e indetto una lotteria quotidiana per gli elettori per spingerli al voto, dettagli sui quali Trump ha sorvolato).
Sempre una grande democrazia, per carità, ma vale la pena ricordare che il Washington Post -prima che Trump si aggiudicasse la partita – ci teneva a ricordare agli americani che “noi usiamo le schede elettorali, non le pallottole” per decidere chi governerà il paese: “ballots, not bullets”, mettendo avanti le mani nel timore di possibili disordini, lo stesso timore che ha circondato il Congresso e la Casa Bianca di barriere antisommossa e uomini armati, per evitare un nuovo sei gennaio.
Il New York Times parla di una “scelta pericolosa” da parte degli elettori, per la prima volta vede l’America sull’orlo del precipizio di uno stile di governo autoritario come mai è avvenuto in 248 anni di storia, l’avvio di “un’era di incertezza per la nazione”. Intervistato sulle sue pagine prima del voto, l’ex chief of staff di Trump, il generale dei marines in congedo John Kelly ha definito il tycoon un fascista : «Non lo penso solo io, ma lo pensano anche le persone che hanno lavorato con lui».
Appunto, quanti hanno lavorato con lui in passato. E infatti per la Cnn il secondo mandato di Trump sarà molto diverso dal primo. Ormai non ha più voci critiche all’interno del partito repubblicano, epurato da quanti hanno osato ostacolarlo. Stavolta The Donald ha speso il tempo necessario per circondarsi di persone la cui lealtà fosse la dote principale, lo staff sarà imbottito di avvocati per evitare trappole giuridiche. La Corte Suprema è già sua, il Congresso è allineato, la strada è spianata, i possibili contrappesi democratici assottigliati. “Non conoscevo nessuno allora. Ora conosco tutti, il buono, il forte, il debole, lo stupido”, ha detto Trump la scorsa settimana alla Fox.
Trump già sente di avere mano libera, nel suo discorso post elettorale non ha mai menzionato la sua avversaria, sia pure concedendo un pallido accenno all’unità del paese, unità che lui stesso ha minato sia durante il primo mandato che nei quattro anni di Biden, demonizzando oppositori e critici. La stampa, in primo luogo, anche oggi definita “campo nemico”, mentre in campagna elettorale invocava il ritiro della concessione per le emittenti sgradite.
Cosa ci si aspetta nei prossimi quattro anni? Intanto incertezza nella politica internazionale, possibile una politica di dazi feroci verso l’Europa, disinteresse per le sorti della Nato e dei conflitti nel continente. In casa Trump ha promesso la deportazione di 20 milioni di immigrati, un bando degli ingressi dai paesi musulmani, l’impiego della guardia nazionale per combattere criminalità e disordini by-passando le autorità locali. La revoca delle restrizioni (parziali) sulla vendita delle armi introdotte da Biden così come delle misure a favore dell’energia green, secondo il motto “drill, drill, drill”. Poi naturalmente una bella sforbiciata alle tasse, gli affari prima di tutto e amen se bisognerà tagliare sulla (poca) sanità e la scuola pubblica. La borsa festeggia euforica, volano i bitcoin. E’ l’America bellezza.


