In questi anni, la sanità è rimasta ai margini dell’agenda politica degli ultimi governi e ora il Servizio sanitario nazionale rischia non farcela. Le liste d’attesa, i pronto soccorso affollati, la carenza di personale, sono solo alcune spie di un sistema da tempo in crisi.
Il problema, ci spiega Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, è che in Italia si investe sempre meno sulla sanità e a dispetto degli annunci di Meloni, con la prossima legge di bilancio, la spesa sanitaria potrebbe raggiungere nel 2029, il minimo storico.
Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, bentornato negli studi di Fanpage. Partiamo dall’ultimo report dell’Agenas sulla valutazione della performance di aziende sanitarie e ospedaliere. Il rapporto restituisce la fotografia di un’Italia spaccata a metà sulla sanità, con un divario tra Nord e Sud sempre più evidente. Qual è il suo giudizio su questo?
Le classifiche delle aziende sanitarie mi piacciono poco, perché rispetto a quelle tra Regioni sono condizionate da diverse variabili. Quello che è certo è che il report è in linea con quanto documentano le classifiche già consolidate, in particolare sui Livelli essenziali di assistenza, cioè che esista non più un divario tra Nord e Sud, ma una vera e propria frattura strutturale. Tutte le regioni del Mezzogiorno soffrono di questa situazione del piano di rientro (che si chiama in esteso Piano di riorganizzazione riqualificazione del Servizio sanitario regionale), che di fatto negli anni, anche a causa dei tagli, ha messo in ordine i conti delle Regioni, ma non ha permesso alcuna riorganizzazione.
Questo fenomeno, ovviamente, riduce la tutela della salute in tutto il Sud, in particolare in alcune regioni come la Calabria, Campania e alimenta il fenomeno della mobilità sanitaria con cittadini che ogni anno sono costretti a migrare dalla propria area di residenza, verso gli ospedali del Nord, in particolare quelle di tre regioni che sono l’Emilia Romagna, la Lombardia e il Veneto.
Sulla sanità il governo ha annunciato investimenti record in manovra ma in realtà il quadro che emerge è ben diverso. Ci aiuta a fare chiarezza?
La chiarezza dipende dalle unità di misura. Se noi prendiamo tutti gli anni che partono dal 2010 e escludiamo il 2013 (che fu l’anno in cui il finanziamento pubblico ha risentito della grande spending review del governo Monti), ogni anno il finanziamento pubblico della sanità è aumentato, quindi ciascun governo potrà dire di aver investito più denaro di quelle precedenti. Il problema, però, è che a fronte di questi investimenti record, come vengono annunciati in maniera un po’ propagandistica, la certezza è che di fatto la percentuale del rapporto spesa sanitaria/Pil si riduce tutti gli anni. Noi siamo passati da circa 6,8% di finanziamento pubblico sul Pil del 2012 e adesso siamo fermi al 2025, intorno al 6%, ma negli anni successivi, 2027, 2028 e 2029, saremo al 5,9%, 5,8% e 5,7%. Quindi, rispetto alla ricchezza prodotta dal Paese, in sanità si investe sempre meno.
È bene far capire anche ai cittadini che a seconda delle unità di misura che utilizziamo, noi passiamo da fare investimenti record al minimo storico. Questo perché un po’ tutti i governi, non solo l’attuale, non hanno mai messo la sanità al centro dell’agenda politica. L’hanno un po lasciata andare a sè stessa rispetto, come se il Servizio sanitario nazionale si potesse risollevare. Oggi, purtroppo, tutti i nodi sono venuti al pettine: in carica è il governo Meloni e credo che sia corretto accettare che la sanità pubblica è una delle grandi emergenze del Paese, con 4 milioni mezzo di persone che non si curano più, di cui 2 milioni mezzo per ragioni economiche.


