Mentre si piange la fine dell’occidente, nessuno ha detto a Trump un semplice “no”

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Trump è in piena escalation verbale, diplomatica, politica, d’immagine. Perfino una evidente satira della “sua” Gaza ricostruita in oro luccicante è stata considerata, forse anche da lui o dai suoi uffici che l’hanno rilanciata, come una distopia che racconta un mondo nuovo, casinò e balli con le cortigiane, cocktail e balli sensuali a bordo piscina tra palestinesi in livrea e statue in oro del dittatore e liberatore con le banconote a portata di mano, una specie di Kim Il Sung del medio oriente, al posto delle tragiche realtà di una guerra durissima e della prospettiva della ricostruzione di uno sbocco postbellico.

Sono settimane che questo grandissimo impostore e bugiardo prende a schiaffi gli interlocutori europei e l’Ucraina e Zelensky personalmente. Commentatori autorevoli e austeri del Financial Times, e occasionalmente del Wall Street Journal, si mostrano costernati. Dicono e scrivono senza timori che il Rubicone è stato varcato e il tradimento è stato perpetrato.

Non è una febbre loquace e latina che porta a concludere per la fine dell’occidente, per l’addensarsi di un superpotere ai limiti della crisi costituzionale negli Stati Uniti, per l’impiego di categorie in apparenza moralistiche come umiliazione, tristezza, di fronte a come il presidente americano impazza con le parole, con i voti all’Onu, nella sua sindrome di tradimento e rinnegamento di alleanze che avevano retto a decenni di storia atlantica. Prendendo le parti di Putin con toni smargiassi e irridendo apertamente le ragioni di stati e governi che hanno sostenuto la resistenza ucraina in accordo e coordinamento con gli Stati Uniti, estorcendo – se ce la farà – un accordo capestro sulle risorse minerarie a un presidente ucraino escluso da un ombrello difensivo che è stato per tre anni la base del drammatico opporsi di un popolo al prepotere di una aggressione e a un atroce carnaio, Trump santifica sé stesso, la sua presunta onnipotenza, la beffarda parabola di uno strapotere. Il problema è che lo fa senza una sia pur minima elementare forma di opposizione.

Tutti a scrutare il comportamento dei governi europei, ora Macron ora Starmer ora Meloni, tutti a interrogarsi sul significato effettuale di guarnigioni britanniche o francesi da piazzarsi come garanzia a ottanta chilometri dal fronte nell’eventualità di un accordo di cessate il fuoco, magari sotto la fatale bandiera Onu e sempre con l’accordo preventivo del Cremlino di cui la Casa Bianca si fa garante, tutti a contendersi il primato della mediazione che salva teoricamente l’onore e la sicurezza dell’Ancien Régime, tutti a domandarsi se ci sarà una copertura americana di terra o di cielo, tutti a osservare i consensi (pochi) e i contrasti (molti) fra le capitali europee su come dare manforte al progetto di spartizione dell’Ucraina e di abbattimento del suo presidente e della sua credibilità, ma beninteso chiedendo “garanzie” agli spartitori e dipendendo dalla loro gentile risposta alle richieste, mentre l’emissario diplomatico di Bruxelles non viene nemmeno ricevuto e gli Usa votano con i peggiori ceffi a favore di Putin e contro gli alleati di ieri alle Nazioni Unite, mentre alle sberle si minaccia l’aggiunta dei dazi e si qualifica l’intero progetto dell’Unione europea come un congegno per fregare Washington.